Odio quel che scrivo perché ogni frase è un atto di dolore e se la scrittura mi procura il sollievo che dà ogni opera compiuta, la rilettura è penosa giacché rinnova lo sforzo del superamento della sofferenza. Si riaprono ferite, ritornano dolori e un mondo di tenebre e demoni ricomincia a chiamare dall’abisso o, più semplicemente, dal piano di sotto o dallo scantinato. Lo dico come confessione, non per vanità – che è fuor di luogo – ma per la necessità vitale di togliermi dall’animo un peso che mi opprime con la gravità di una colpa che non ho commesso e tuttavia avverto come condizione di redenzione. L’odio è una forma di autotutela.
Ogni autore è tentato dalla lettura e rilettura delle sue opere che sue sono più per contratto e diritto d’autore che per genesi storica o spirituale; me nel riprendere in mano le proprie opere ogni autore avverte, oltre che un moto d’affetto per la creatura che ha messo al mondo, una sensazione di fastidio, come se quelle opere gli mettessero innanzi per la seconda volta quel tumulto di stati d’animo da cui sono nate o quello scontro di idee, forze e predicati che premono nel giudizio. Forse, è per tale ragione che si preferisce rileggere più le opere altrui che le proprie: per non ritrovarsi con un ingombrante e vanitoso se stesso che non si desidera più o, meglio, per non rinnovare in sé affezioni e ostacoli superati nella tempestosa della genesi dell’opera. Lo dice anche il luogo comune che porta in sé sempre un che di vero: cosa fatta capo ha.
Ogni opera fatta e compiuta è un atto di liberazione dalla vita che ci preme, insegue e opprime. L’opera di pensiero, in particolare, è un continuo scendere all’inferno e risalire verso la luce in un moto perenne di unità e distinzione degli atti e dei prodotti umani che se non si è completamente sciocchi non si può sostenere a cuor leggero o con il falso convincimento che non ne rimanga traccia. A ben vedere, l’odio è uno scudo, una corazza naturale che l’organismo stesso, prima che la mente, indossa per prendere le distanze dall’opera che con la sua compiutezza esercita verso l’autore una malia o una tirannia che invece non è subita dagli altri uomini che, per motivi comprensibili, ne ricavano gioia e soddisfazione. Ogni opera si porta dietro un delitto. L’opera è in grado di provocare, per dirla con Roland Barthes, la morte dell’autore. In fondo, è umanamente vero: l’autore andrà via mentre l’opera è ciò che resta. L’autore che viene perfino disconosciuto dall’opera nutre in sé un sentimento di invidia e rivalsa, un sentimento di rancore per non riuscire ad essere vittorioso ed eterno come l’opera. Anche il lettore o chissà chi deve essere disposto a soffrire in sé per innalzarsi al valore dell’opera – quale che sia: di lettere o figure o pietre – ma l’autore vuole distaccarsi dall’opera per non rifare due volte la stessa via, come la partoriente che accoglie il figlio proprio perché se ne distacca e non partorisce due volte lo stesso figlio.
A volte l’opera può rivelarsi una trappola. Accade un po’ come con quegli attori che si identificano a tal punto con il personaggio, nei cui panni stanno benissimo e si sentono a proprio agio, da non riuscire poi più a liberarsene. L’attore è prigioniero del personaggio e il pubblico, che lo riconosce solo in quel ruolo, non lo apprezza in altre interpretazioni e lui stesso – l’attore – uscendo dal suo personaggio ha paura di tradirlo, se non di tradire addirittura se stesso. L’attore arriva ad amare e insieme odiare il personaggio nel quale vede sia se stesso sia l’impossibilità di essere veramente se stesso. L’amore per l’opera – l’amore eccessivo – può portare a una totale identificazione e così l’autore diventa vittima dell’opera come l’attore è vittima del personaggio (il quale continuerà a vivere quando l’attore sarà morto). L’amore smodato diventa bisogno di possesso e l’autore nel tentativo insano e impossibile di possedere l’opera ne diventa schiavo.
E’ bene rassegnarsi: l’opera – ogni opera, non solo quella d’arte e di pensiero ma anche quella pratica ed economica, la verghiana “roba”, per non dire quella morale – non è nostra se non per contratto e per quei diritti d’autore che ognuno esercita nella sfera di sua competenza fino a quando non saranno “scaduti”; per il resto, ogni opera è assoluta ossia è sciolta nel mondo. Riconoscerlo ci aiuta a liberarci per la seconda volta da passioni con le quali non riusciremmo ad abbandonarci ad una vita che ci chiama per essere ancora una volta messa in opera.