Tra Ponte e Paupisi c’è stata l’Apocalisse. Non bisogna essere né Rutger Hauer né trovarsi nella fantascienza di Blade Runner per dire “ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare”. Bastano le colline, i boschi e i fiumi del Sannio. Basta fermarsi tra questi due piccoli paesi del Beneventano, sulla statale telesina, e guardare senza pace: la furia delle acque, del cielo e della terra, è stata così veemente che la stessa geografia dei luoghi è stata modificata. Prima attraversavi queste colline che accarezzano il dorso del Taburno e vedevi vigneti e frutteti, piantagioni e alberi di largo e alto fusto, mentre ora frutti, fiori e piante, con il lavoro dei contadini, sono sepolti a perdifiato sotto il fango e la terra che il fiume Calore ha sollevato e rivoltato. “Abito qui da sempre – dice Teresa Simeone, l’insegnante che ha raccontato con i suoi tempestivi articoli il dramma di Ponte – e non avevo mai assistito a scene apocalittiche come queste: il fiume cresceva che sembrava il mare, la pioggia veniva giù come le cascate e la collina si lamentava con un suono sordo, come se stesse per crollare”. Il dramma di Ponte, 2500 abitanti e una vita che scorreva con l’illusione della felicità, è doppio: da una parte il fiume che ha straripato e dall’altra la collina che è franata.
Il paese deve il nome a un ponte romano costruito sul torrente Alenta che si riversa nel Calore, poco prima che vi si getti l’altro affluente Janare. I due torrenti in poche ore sono diventati due fiumi e hanno alimentato il Calore che prima di confluire nel Volturno era già diventato – nei fatti se non nel nome – il fiume più grande del Mezzogiorno. Così a Ponte i ponti sono stati sommersi e sopraffatti dalle acque, sia nelle campagne sia nel centro: il viale Stazione è diventato a sua volta il letto di un fiume e via Ripagallo che taglia il paese in due come una mela è fango, terra, detriti, massi e ammassi. Proprio nel centro, anche per costruzioni azzardate, sono state annientati negozi, attività, commerci e ora si teme per il palazzo Venezia che costruito pochi anni fa come un rifugio è ora un pericolo. La natura si è ripresa ciò che le avevano malamente tolto. Neanche Carlo I d’Angiò, quando si accampò a Ponte nel 1266 con il suo numeroso esercito per marciare su Benevento e scontrarsi e uccidere Manfredi di Svevia, fece tanti danni.
Ora, passata la tempesta, gli abitanti di Ponte si guardano attoniti e fanno la conta dei danni. In paese i negozi sono stati cancellati, nella campagna le coltivazioni di vino e olio non esistono più, nell’area industriale le aziende sono state colpite duramente. Ma la tempesta non è passata del tutto perché la collina continua a lamentarsi e il Calore, come Orlando, è ancora furioso e minaccia il millenario destino della splendente e longobarda abbazia di Sant’Anastasia. Ponte è un po’ il simbolo dell’alluvione della grande valle del Calore: l’11 maggio 2016 i ciclisti del Giro d’Italia arriveranno a Benevento e il 12 maggio da Ponte partirà una tappa della 99esima edizione del Giro d’Italia. E’ bene, allora, che in questo paese che fin dal nome esprime il senso del legame – Ponte – passi non solo il Giro ma l’Italia perché è vero quel che fin qui s’è detto sottovoce ossia che gli aiuti sono arrivati tardi e non ci si è resi conto della grandezza del dramma della terra sannita. L’alluvione non è stata il frutto solo del cattivo tempo ma anche di una “dimostrazione di forza” del Calore e delle tanti sorgenti d’acqua e numerosi torrenti che, a iniziare dal Tammaro, lo alimentano scendendo dai boschi del Fortore. Non a caso il territorio più ignoto e più mal governato della Campania.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 22 ottobre 2015