Giornalismo e comunicazione sono cose diverse ma si tende a credere che siano la stessa cosa. E’ un grave errore. Gianni Mura recentemente, in un dialogo pubblicato su linkiesta.it, ha detto che il problema del giornalismo è che non si occupa più della realtà. La differenza, enorme, tra giornalismo e comunicazione consiste proprio in ciò: il giornalismo dovrebbe avere come sua base o fonte la realtà mentre la comunicazione riguarda la trasmissione o addirittura la propaganda. Sembra un fenomeno moderno, invece è antichissimo, è già ben presente nei Dialoghi di Platone e nella Retorica di Aristotele perché esiste da quando l’uomo parla.
La parola, che può anche diventare scrittura, fa tante cose: esprime, giudica, immagina, appassiona, eccita. La parola ha una grande capacità di suggestione perché riguarda la vita sentimentale, immaginativa e passionale degli uomini che quando ascoltano parole non sentono solo suoni ma immaginano scene, avvertono sentimenti, rievocano passioni. Il giornalismo è fatto di parole, scritte e orali, che riferiscono notizie e, a volte, giudicano fatti o stimolano opinioni. Il giornalismo ha inevitabilmente in sé un elemento comunicativo come ce l’hanno anche la parola poetica e il giudizio che pur si distinguono dalla retorica e attengono all’espressività e alla verità. Possiamo dire che la comunicazione sta al giornalismo come la retorica sta al giudizio. Purtroppo, la parte è diventata il tutto e il giornalismo è stato inghiottito dalla comunicazione che, a differenza del giornalismo e del giudizio, funziona anche senza la realtà. Anzi, meno realtà c’è meglio è. La realtà è un impiccio perché deve essere intuita, analizzata e spiegata concettualmente mentre lo scopo della comunicazione è solo la trasmissione più immediata possibile. Di cosa? Il più delle volte di immagini semplici che devono propagandarsi per influenzare ed eccitare. Non è un male in sé. E’ una questione di consapevolezza e dosaggio. La retorica, che suscita sentimenti e stati d’animo, fa parte della vita quotidiana e riguarda il piacere e il dolore. La televisione del dolore, ad esempio, è retorica. Ma anche la pornografia è retorica. Anche se, a volte – anzi spesso -, le scene pornografiche non riguardano la pornografia e si ammirano comunemente in serali o mattutini talk show.
La confusione tra giornalismo e comunicazione – cioè realtà e propaganda – riguarda il nostro tempo che, forse, proprio per tale motivo è un po’ più menzognero degli altri. E’ il paradosso della cosiddetta società trasparente: più si vuole essere trasparenti e più si risulta falsi. Proprio perché comunicazione e verità sono due ordini diversi. Per questo motivo la trasparenza assoluta è un mito. Come, dopotutto, è un mito la verità assoluta. Ma la confusione tra giornalismo e comunicazione ha risvolti pratici che sono più interessanti – e persino divertenti – delle implicazioni che si potrebbero chiamare filosofiche. Ogni ente – governo, ministeri, regioni, province, comuni, scuole, uffici, ospedali eccetera eccetera – si dota di un ufficio stampa addetto alla comunicazione (ma ognuno di noi oggi, con il suo cellulare, è un ufficio stampa, anche se non stampa nulla). Ma questi uffici stampa sono nella migliore delle ipotesi la voce del padrone. In fondo, non sono neanche un male perché almeno forniscono, a volte, informazioni. Quando inizia l’inghippo? Quando chi svolge un ruolo di comunicazione ritiene di fare giornalismo. E’ un problema più serio di quanto non si immagini perché non riguarda tanto gli uffici stampa e delle comunicazioni quanto tanti aspiranti giornalisti che credono che la comunicazione sia giornalismo e il giornalismo sia comunicazione. Su questa falsa equivalenza – che è un inganno sofistico – si sono persino istituite cattedre universitarie, che ormai ci sono anche per la coltivazione del cetriolo, e corsi di facoltà tipo le pompose Scienze della comunicazione. Il risultato è che una volta usciti da queste facoltà così scientifiche ci si imbatte con una cosa strana chiamata realtà che è tanto facile cancellare con le parole quanto prendere in faccia realmente.