Le sorti della vita umana nella sua socievolezza sono legate ad un’élite aristocratica perché gli uomini che pensano seriamente e agiscono giudiziosamente non sono molti ma pochi e quando i pochi aristocratici prevalgono culturalmente il mondo progredisce mentre quando soccombono e le masse prendono il sopravvento il mondo regredisce. Tuttavia, si sbaglierebbe non poco se si pensasse o s’immaginasse la relazione tra aristocrazia e masse come montagne che si guardano ma non si toccano o come un muro contro un muro perché in realtà aristocrazia e masse sono le due facce della stessa medaglia e a tempo, luogo e condizione non c’è aristocratico che non sia plebeo e non c’è plebeo che non sia aristocratico. La democrazia, in particolare, vive solo con il concorso di entrambe: dell’aristocrazia che deve essere aperta verso le informi masse e le masse che devono sentire il bisogno di educarsi e salire verso il meglio. La vita è nella sua stessa consistenza storica e civile un’aristocrazia aperta.
E’ oltremodo ingenuo e ingannatore pensare come nemici senza quartiere l’aristocrazia e le masse, mi ammonisce Croce. La prima ha bisogno delle seconde per rinsanguarsi e rinvigorirsi, le seconde hanno bisogno della prima per progredire ed educarsi. Ma ne hanno bisogno fino ad un certo punto. Perché anche l’educazione – e soprattutto l’educazione – vuole per sé la libertà che dà alla pratica educante il suo vero sapore, fatto di rischio e pericolo, di autoeducazione. Per cui il processo educativo scolastico – sul quale ai nostri giorni si fa tanto baccano – è sì necessario ma pur sempre limitato perché è una forma di educazione sotto tutela che, va da sé, non può essere protratta oltre un certo tempo e un certo modo, pena lo snaturamento di sé e dell’educando che diventerebbe un pollo di policoltura. E’ giusto che i giovani traggano i maggiori insegnamenti non solo e non tanto dai maestri ma dalla vita e dagli errori che inevitabilmente commetteranno per conoscersi e crescere e, parimente, è giusto che gli uomini e i cittadini, i lavoratori e gli impresari non vivano una vita sotto tutela o sotto l’illusione di stare al coperto di una campana o nel recinto di una corporazione ma in una condizione di libertà in cui tra interessi contrari, valori opposti, scontri e persuasioni, battaglie e mediazioni, mezzi adeguati ai fini continuano quel processo educativo che è l’alternanza dell’imparare e dell’insegnare che ci fa uomini e che quando non si può più provare o ci si illude di già tutto aver provato e tutto aver imparato s’interrompe e la vita muta pelle e non è più vita ma morte. E’ chiaro che in questa vita libera – in questa libera lotta, in questo gioco che su tutti è sovrano perché si sottrae alla presa del potere – ci sono vittorie e sconfitte, salite e discese, perché la vita è fatta a scale e c’è chi scende e c’è chi sale e la vita scalante è in sé un attrezzo pedagogico in cui impariamo a misurare i desideri e a formare le volontà, a irrobustire gli intelletti che colgono il limite sempre esistente e pur mutante delle condizioni vitali e storiche in cui chi lavora per educarsi trasforma la massa che entro gli rugge in una virtù che è sempre aristocratica di moderazione, comprensione e santa pazienza che tra tutte le qualità è quella più vicina all’oro napoletano e all’oro dell’umanità che ognuno, stortignaccolo o dritto che sia, si porta dentro.
La doppia educazione, quella dei maestri – che oggi con brutta parola si chiamano professori o, peggio, prof – e quella più vera della vita, ha non solo il compito di condurre le masse in formazione verso l’aristocrazia già formata e inevitabilmente cadente ma anche quella non meno valida di dar corpo e anima a un ambiente vasto e vario in cui i progetti, i concetti, i disegni, le espressioni si chiariscano e si dirozzino per esser meglio accettati, accolti e condivisi e far crescere così quel lavoro collaborante della società che è di tutti e di nessuno e che nella sua alta e nobile sovranità dà a tutti la possibilità di amarci e affermarci. E’ in questa libertà che è insieme mezzo e fine e che diventa coscienza e cultura che si incontrano cervelli e virtù, corpi ed energie, desideri ed ambizioni e così l’aristocrazia e le masse non sono due belve che si guardano in cagnesco, secondo la volgarissima dottrina della lotta di classe, ma sono due fantasmi frutto di immaginazione perché ciò che alla fine c’è di vero e concreto è la tendenza del nostro animo che può alzarsi alla coscienza della libertà o abbassarsi all’incoscienza del risentito incattivimento.
Cosa manca oggi al mio triste paese se non questa cultura della libertà? Fa sorridere l’aristocrate che crede di essere un uomo superiore al di sopra di tutto e tutti, come fosse toccato dalla grazia mentre non sa che proprio in quell’orgoglio manifesta chiaramente che anche lui è plebeo, è massa, è volgo come lo è ognuno di noi quando dice ciò che non sa fingendo di sapere o fa goffamente ciò che è incapace a fare come se fosse esperto. Tuttavia, non fa sorridere ma inorridire l’idea – pur tante volte accarezzata e perfino irrazionalmente ragionata – che la massa sia giusta e buona in quanto massa e che dal suo trionfale ammasso possa venire il meglio per tutti. Non possiamo negare di trovarci periodicamente in questa circostanza in cui la massa – che a volte è chiamata popolo, altra volta sovranità, di poi volontà popolare e ancora gente – è innalzata a valore in un capovolgersi di virtù e barbarie; e non possiamo negare che lo stesso Stato democratico è concepito con un malcelato moto d’ipocrisia verso la libera educante lotta come un potente Leviatano che ha il compito di opprimere e sopprimere quel libero gioco della vita e trasformarci in fredde biglie di ferro ottuse e insensibili all’aristocrazia della vita che, fortunatamente e machiavellicamente, pur riemerge dal fondo del risentimento per un naturale bisogno di riuscita e aria fresca.