Il primo articolo della Costituzione è tanto noto quanto ignoto. E’ noto perché è citato a sproposito spesso e volentieri ed è ignoto per il medesimo motivo. La Costituzione italiana fu scritta tenendo presente tre culture politiche: cattolica, comunista, liberale. La terza, minoritaria, agì per evitare il peggio, mentre le prime due diedero il meglio di sé per realizzarlo. La concezione del lavoro che esprime la Costituzione più bella del mondo è nella sua sostanza illiberale. Il lavoro non è coniugato con la libertà ma con la dipendenza. La libera iniziativa non è vista di buon grado ma con sospetto e chi lavora non è agevolato ma ostacolato, non è incentivato ma super tassato. Il lavoro per la Costituzione non è libera creazione umana ma un’elargizione e una richiesta. La differenza è determinante perché nella concezione liberale il lavoro è al contempo condizione e garanzia di libertà, mentre nella visione cattolica e comunista – e, peggio, del cattocomunismo – il lavoro crea un rapporto di dipendenza che nel suo massimo grado concepisce lo Stato non solo come il padrone dei mezzi di produzione ma anche dei corpi e delle anime.
Sia la cultura cattolica sia la cultura del socialismo sono presentate, secondo tradizione, come grandi amiche del lavoro. Il cristianesimo sa fin dalle origini che l’uomo per essere libero e degno deve lavorare e San Benedetto si incarica di codificare il senso della cristianità nella regola che sarà per sempre la Regola: ora et labora. Il socialismo moderno nascerà proprio con la “questione sociale” del lavoro e Marx farà del lavoro la vera essenza dell’uomo. Tuttavia, sia il cattolicesimo sia il comunismo tradiscono le loro ispirazioni per privilegiare il loro messianismo di fondo che molto meglio si sposa con un’organizzazione secolare del potere: la Chiesa e il Partito. La regola benedettina viene interpretata dalla chiesa cattolica più nel senso della preghiera che della pratica del lavoro e il comunismo fa un che di analogo quando trasforma se stesso in qualcosa di molto simile a un Paradiso in terra privilegiando la preghiera ideologica e predicando nientemeno che la liberazione dal lavoro. In entrambe le culture, dunque, il lavoro non è valorizzato come la vera attività umana che rende gli uomini liberi ma è svalutato perché si vede nel lavoro una minaccia: ossia la libertà stessa che non vuole sottostare né gnoseologicamente né eticamente al controllo preventivo della Chiesa-stato e del Partito-stato. Non è un caso se la Chiesa cattolica si nutrirà di Controriforma e non di Riforma e se a sua volta la chiesa comunista avrà sempre in odio lo spirito religioso del capitalismo che alberga nel calvinismo il quale nel lavoro benedettino vide la benedizione di Dio.
Il lavoro è nella sua essenza, cioè nella sua pratica, un’opera di mediazione. Il lavoro autonomo rende gli uomini liberi e istituisce un regime di libertà perché, per dirla con Aristotele, media gli opposti, i contrasti, i conflitti. La classe sociale per eccellenza del lavoro è la borghesia alla quale non a caso proprio Marx dedica nel Manifesto il più grande elogio che mai sia stato fatto. La borghesia è per sua vocazione il ceto civile che oggi è detto ceto medio proprio perché ha il compito fondamentale di mediare gli opposti – i reazionari che spingono per l’autoritarismo e i giacobini che spingono per la rivoluzione – difendendo e garantendo così la libertà che va a beneficio di tutti. La borghesia non media perché deve conservare se stessa ma perché è la natura del lavoro che la spinge a svolgere il ruolo di distinzione. Ma la borghesia oggi non esiste più e siamo tutti, sia i grandi sia i piccoli, sottoborghesi le cui attività dipendono da Leviatani ora nazionali ora internazionali. L’Italia soffre più di altri paesi europei perché il suo ceto medio da un lato dipende eccessivamente dallo Stato e dall’altro è tartassato. Nonostante l’Italia abbia necessità di tornare al lavoro concreto e ai suoi spiriti animali, proprio in Italia prevale l’idea cattocomunista che il lavoro sia un diritto mentre è un dovere. Cattolicesimo e comunismo hanno abituato gli italiani a chiedere più che a fare e così li hanno educati alla dipendenza più che alla libertà. I frutti del lavoro – la ricchezza, il benessere e soprattutto l’autonomia relativa che del lavoro fa una religione – non sono visti come segni del buon Dio ma come causa di invidia sociale. Ci vorrebbe un po’ di sano spirito calvinista, ma per i più il calvinismo al massimo sarà la religione dei calvi.