di Antonio Medici
“La zeppola è fritta. La medesima pasta, cotta al forno è bigné, choux o chiamatela come volete ma non zeppola #amen”. Centodiciassette battute, spazi inclusi, un tweet e una riga su facebook. Ho scritto questo proclama come divertissment provocatorio qualche giorno fa sui miei account social. Son piovuti likes, stellette, commenti. Nel piccolo universo dei miei amici e followers, dunque, soggiace un grumo disorganizzato di eretici, resistenti alle mode detox e ai messaggi salutisti inoculati dalla lobby dell’hamburger di soia, come virus, nel sistema della comunicazione globale.
Come d’uopo in questi tempi traviati, in cui si discetta per settimane sull’ortodossia dell’aglio, non sono mancate le precisazioni sul tipo di grasso usato per friggere, sulla crema e sulla sua più corretta collocazione, solo sopra oppure anche in farcitura interna, sull’amarena.
Provo a sintetizzare i contenuti delle digressioni e degli approfondimenti per tipologia umana.
L’intellettuale: “la tradizione deve rinnovarsi nei e con i tempi, conservando, attenzione, i tratti e le intrinseche categorie della zeppola. Uno studio epistemologico, edito in Russia da un editore minore di Kaliningrad, ha evidenziato come la frittura sia l’esito di una depravazione del metodo scientifico applicato alla gastronomia e come tale destinata a produrre successive depravazioni in altri contesti delle relazioni sociali. La scienza ci ha regalato il forno per cotture che inducano pensieri sani, usiamolo anche per le zeppole. E’ ora che gourmet e cuochi aprano qualche libro e studino.”
L’ecologista: “la zeppola, fritta o al forno che sia, si gonfia e cresce, rubando ossigeno prezioso all’uomo, agli animali, alla terra. E’ ora di finirla con l’ambizione di una crescita che distrugge risorse essenziali all’ecosistema. La zeppola è il simbolo di un modello predatorio che occorre abbandonare. Chi mangia la zeppola inquina.”
Il vegano credente: “la decadenza onnivora contemporanea è arrivata a far del divino occasione per un blasfemo abbandono ai sensi. E così financo il padre putativo di Gesù è oggigiorno il pretesto per peccaminose scorpacciate di paste fritte nello strutto e farcite con creme animalesche. Si abbandoni l’istinto primitivo del cannibalismo per mondare il corpo e lo spirito. La zeppola al forno condita con crema di riso è la via della purificazione e della salvezza”
Potremmo proseguire ma il rispetto al prestigio della testata che ospita questa volgare rubrichetta, ci impone almeno di riferire di una fonte accreditata. Riportiamo, così, un’antica ricetta del duca di Buonvicino, Ippolito Cavalcanti, cuoco e letterato, nel suo trattato “Cucina teorico – pratica” edito nel 1837 a Napoli con l’ambizione di illustrare la “vera cucina casareccia” e “la pratica di scalcare e come servirsi dei pranzi e cene finalmente secondo le stagioni”.
Scrive il nobile cuoco: “per fare le zeppole, piatto di rubrica in Napoli per la ricorrenza della giornata (domenica delle palme, ndr) farai con due libbre e mezzo ed once tre (che corrisponde al rotolo di Napoli) la pasta bugné. Fatta questa pasta la porrai sulla tavola di marmo, o sul pancone verniciato d’oglio e rimenerai la pasta, della stessa ne farai tanti torta netti, non molto piccoli, e li friggerai con strutto bollentissimo, potrai ancora con oglio; appena fatta una piccola crosta li rivolterai, e con un ferro puntato espressamente o con un puntuto di legno li pungicherai dovendo vuotarsi così ed allora le zeppole saranno ottime, le rivolterai di nuovo finché giunga il loro punto di cottura biondo perfetto e le farai sgocciolare, l’accomoderai nel piatto proprio a piramide; farai un giulebbe strettissimo, ce lo verserai per sopra e poscia polverizzerai da per tutto lo zucchero e così saranno servite le zeppole”. E così sia.