Una volta per diventare barbiere o parrucchiere si andava a bottega e si imparava il mestiere per poi, eventualmente, mettersi in proprio. Oggi le cose sono un po’ più complicate. E’ necessario frequentare un corso di formazione o qualificazione della durata di 2 anni e così ottenere un diploma riconosciuto dalla Regione. I corsi sono tenuti da “scuole di estetica” e da fior di docenti che insegnano non solo pelo, contropelo e bigodini ma anche italiano e galateo. Il corso – va da sé – non è gratuito. Solo dopo aver ottenuto il diploma si potrà, forse, avviare l’attività e fare barba e capelli. I corsi di formazione regionali sembrano un progresso rispetto al vecchio modo di imparare l’arte e metterla da parte, ma nei fatti si tratta di un regresso e una limitazione della libertà di farsi fare la barba. L’aspirante acconciatore, che nella grande maggioranza dei casi ha già imparato il mestiere, vuole lavorare ma in concreto potrà lavorare solo se lo Stato gli concederà il permesso di farlo. Ci troviamo di fronte ad una vera espropriazione di quella che un tempo i marxisti, che certo sull’esempio della barba di Marx non si occupavano dei barbieri, chiamavano “forza lavoro”. Il primo articolo della Costituzione più bella del mondo andrebbe riscritto: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla concessione del lavoro”.
Il monopolio del mercato della barba in Italia è preso molto sul serio. Il governo con gli ultimi provvedimenti sul lavoro avrebbe voluto ridurre i 2 anni di corso a 900 ore e dimezzare il periodo di inserimento a 6 mesi. Si contemplava anche la possibilità di avviare il lavoro di acconciatore affittando una poltrona presso un locale – il salone – già adibito all’attività e con un titolare, naturalmente, abilitato. Ma non c’è stato nulla da fare: tutto è rimasto sul piano della contemplazione perché la liberalizzazione del bigodino e della messa in piega è stata respinta. La regolamentazione eccessiva della professione porta con sé la nascita della corporazione dei barbieri che non vuole l’aumento della concorrenza. I saloni dei parrucchieri sono 73mila e il governo un po’ barboso ha avuto paura di dare una sacrosanta sforbiciata alle assurde regole di accesso al lavoro che invece di incrementarlo lo radono.
Una volta il barbiere era quasi un’attività umanistica e una scuola di vita. Altro che le moderne “scuole di estetica”. Quando il filosofo tedesco Gadamer veniva a Napoli, prima di andare da Gerardo Marotta su a Monte di Dio, faceva un salto dal barbiere di Croce perché, a suo dire, vi trovava la vera scuola di filosofia di cui aveva bisogno. Il barbiere più che una professione è un mestiere o, meglio, come la filosofia, una necessità: negata, rinasce al momento del bisogno. L’Italia è arrivata al punto in cui è necessario rivendicare il diritto alla libertà della barba o di farsi fare la barba da chi ci pare e piace.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 26 febbraio 2015