A volte mi sorprendo a pensare che tutti noi – io senz’altro – ci siamo ingannati sulle attese e sui destini della più recente storia politica e civile d’Italia e che sarebbe oltremodo utile un po’ a tutti, ai singoli come ai gruppi, una pubblica confessione. Le cronache renziane, che a volte sembrano cronache marziane richiamanti l’extraterrestre di Flaiano, hanno la loro radice profonda nella storia inconcludente delle cronache berlusconiane e prodiane che, con l’aggiunta, anzi, con la premessa influente delle giustizialiste cronache giudiziarie di rito ambrosiano, ci piacque considerare, con l’alternanza destra e sinistra, come la dannunziana “favola bella” che ieri mi illuse e oggi ti illude, o Ermione. La più grande illusione fu quella di vedere la storia passata – la Prima repubblica – come il male e prefigurare la storia futura – la Seconda repubblica – come il bene. Un inganno beffardo perché nella vita e verità effettuale delle cose e nella più banale esperienza umana il bene e il male non sono divisi e opposti come la luce e le tenebre nel culto di Mani ma sempre uniti, come uniti sono la luce e l’ombra. L’averli separati e usati in modo manicheo ci ha ubriacato l’intelletto e confuso il petto fino ad offuscare e quasi cancellare la verità storica di un’Italia malmessa che un bel giorno ci è caduta addosso come se fosse una maledizione divina mentre era solo umanissima e stolta coscienza.
Lo dico a me stesso ma lo vorrei dire anche al presidente del Consiglio che è bravo nel far ricadere ogni colpa del presente sul passato ma poi per eccesso di furbizia ripete gli stessi errori del passato dicendo che, una volta tolti di mezzo i cattivi governanti, ci attendono giorni felici. Invece, il problema italiano è molto più complicato perché non riguarda solo il livello dei governanti ma anche il livello dei governati e i provvedimenti da adottare sono impopolari e non promuovono nel breve periodo la felicità pubblica (ma al mondo, per fortuna, non c’è nulla che sia capace di generare la felicità pubblica). Non è un caso che l’Italia sia un paese sempre bisognoso di riforme che puntualmente non arrivano mai. Le riforme serie si basano su fatti certi e verità chiare, ma la nostra vita civile racconta una storia incivile in cui i fatti sono incerti e le verità confuse. Un bel po’ di tempo fa Alberto Arbasino pubblicò un saggio intitolato Un paese senza. Senza cosa? Prima di tutto senza verità. Se non c’è verità più o meno condivisa e più o meno veritiera le riforme sono come palafitte costruite sulle sabbie mobili.
La Seconda repubblica aveva un’ambizione: completare, con la fine oltre il limite massimo del Pci e del comunismo, la storia d’Italia con una democrazia dell’alternanza capace di farla finita con l’eterna ricerca del capro espiatorio sul quale addossare le colpe di tutti. Purtroppo, l’ideale non solo non si è realizzato ma è sorto esso stesso su un caprone espiatorio che alla lunga, come una verità non detta, si è vendicato. Anche in questo caso non è un caso che la Seconda repubblica sia durata un ventennio e sia finita con una sorta di commissariamento europeo che altro non è che il volto nuovo che ha assunto il ciclico disastro italiano che si verifica quando il blocco sociale asceso al potere crolla su di sé come il gigante dai piedi d’argilla. Che questo eterno ritorno della storia politica e istituzionale italiana si sia puntualmente verificata anche con la Seconda repubblica che del collasso consociativo voleva essere la fine è una vendetta della verità piuttosto che un’astuzia della ragione. La democrazia italiana ha dei tratti antimoderni che rimandano direttamente alla cultura degli italiani fatta di partiti, chiese, fazioni, bande, corporazioni e, forse, al loro stesso “carattere”, senz’altro ai loro costumi che teorizzano l’ombelico come bene nazionale. Gobetti, com’è noto, vedeva nel fascismo un’autobiografia della nazione e, com’è altrettanto noto, si tratta di un’interpretazione controversa. Ma al netto dei giudizi sul più famoso Ventennio del passato remoto, non c’è dubbio che il ventennio del passato prossimo, che ritorna come un presente irrisolto, sia un’autobiografia nazionale in cui il vizio di seppellire la verità e la virtù di coltivare le illusioni continuano ad alimentare un fasulla coscienza nazionale che non si guarda mai allo specchio. Non è solo un problema politico. E’ addirittura pedagogico.
I giovani per loro natura sono “anime belle” che vogliono aggiustare i tanti guasti di un mondo che fu fatto male e si sarebbe potuto fare bene se solo si fosse usata la ragione che ora loro useranno cancellando ogni ombra di male. Questa ingenuità che è freschezza di vita ed inesperienza, che pur son necessarie per ricreare vita e mondo, in Italia – forse solo in Italia – sono innalzate a sistema per mancanza di verità, memoria e continuità storica. E la ragione senza storia genera fanatismo e impotenza. Le generazioni non si danno la mano, non si scambiano il testimone ma si accoltellano accusandosi reciprocamente. Ogni generazione vede nella precedente non la sua ragion d’essere ma la sua maledizione e avanza non solo per seppellirla secondo legge naturale ma anche per condannarla secondo legge immorale. La sovranità popolare italiana appartiene al moralismo che a tutti, appunto, è sovrano. La storia, che non si conosce né per irridere né per piangere ma per capire e liberarsi, è usata per giustificare le proprie manchevolezze. E la storia ignorata si ripete con i suoi drammi civili. Solo in età avanzata, quando il giovane non è più giovane, si è disposti a riconoscere, ma solo a se stessi, di aver sbagliato, di essere stato ingiusto, di non aver capito e di aver agito non con opere bensì omissioni. Ci si guarda intorno e si vede ormai una nuova generazione che scalpita e vuole cambiare il mondo ingiusto e la si osserva con il sorriso cinico di chi ha appreso dai propri errori e attende fiducioso gli altrui. Così vuole l’autobiografia nazionale.