Quando Carl Schmitt va allo stadio è il titolo di un, ahimé, antico saggio di Gennaro Malgieri che, purtroppo, non ho e devo ricordarmi di chiederglielo. Mentre ho tra le mani Il pallone smarrito, edito da Tabula Fati, e lo giro e rigiro, vedo e rivedo, leggo e rileggo con – confesso a me stesso e al mio amico – piacere e sofferenza. Con piacere e gusto della lettura perché Malgieri scrive del declino del calcio di Neymar e Messi come del Tramonto dell’Occidente di Spengler tenendo insieme ipotesi di gioco e lezioni di vita. Con sofferenza e con quel sadismo che è tipico del dolore inflitto a se stessi perché in questo “taccuino calcistico”, nato sulle pagine elettroniche di formiche.net nel mese dell’ultimo Mondiale di calcio, è centrale quello che Malgieri chiama un “suicidio annunciato”: la fine drammatica del Brasile distrutto in diretta televisiva dalla “macchina tedesca” di una Germania implacabile.
La tesi del libro – che, va ricordato ancora perché ne va del valore della critica calcistica di Malgieri, è un testo che è stato scritto mentre il Mondiale era in corso – è che il Brasile ha perso perché non era più ormai da tempo il Brasile. “Il risultato di 7 a 1 per la Germania – nota Malgieri con rigore – non è neppure eccessivo, se si considera la caratura di una squadra vera, costruita nel corso del tempo per vincere senza sconti contro chiunque, a maggior ragione contro fragili e intimiditi giocatori a cui nessuno ha insegnato nel corso degli ultimi dieci, quindi anni il calcio brasiliano, che è una variante artistica della poesia, della letteratura, della geometria, dell’armonia applicate allegramente alla corsa con la palla al piede verso la gloria di gol inevitabili”. La fine di Belo Horizonte dà la mano all’inizio del Maracanà. Nel 1950 l’Uruguay di Obdulio Varela – il capitano della Celeste che pagò poi per tutta la vita quella inattesa vittoria – vinse su un grande Brasile che schierava in attacco Zizinho, Ademir, Jair, Chico e milioni di brasiliani piansero insieme come un solo bambino. Nel 2014 la Germania di Klose ha spazzato via un Brasile che era un fantasma e che aveva rinunciato già ad essere il Brasile. Della Seleçao era rimasto solo l’inganno della superbia e della presunzione che una volta colpito e scoperto ha mostrato l’umanissimo e fragilissimo infantilismo brasiliano. La differenza tra la sconfitta del Maracanà e la disfatta di Belo Horizonte sta nel dopo. Perché dopo venne il grande Pelè e un Brasile che giocava a calcio come si gioca solo in Paradiso (se in Paradiso si giocasse, ma sappiamo che lì – presso gli dèì – non si gioca perché il gioco è terreno e terrestre). Il giorno della sconfitta al Maracanà il piccolo Edson giocava a pallone nel vicolo di casa mentre il padre con i suoi amici “guardava” la partita in televisione, anzi, alla radio. Il dramma ammutolì tutti. Anche il pallone di Edson smise di rotolare e il bambino, che in quel momento era il Brasile, vide suo padre piangere. La vittoria del 1958 in Svezia iniziò quel giorno perché Pelè imparò prima di tutto la grande lezione del gioco: se vuoi vincere accetta la sconfitta. Dopo la “catastrofe brasiliana” ad opera della “macchina tedesca” non si vede all’orizzonte alcun piccolo Edson. Se oggi “dio non è più brasiliano” è perché il calcio del Brasile non è in grado di trasformare la sconfitta in una presa di coscienza per rifondare nuovamente quella che era la particolarità del comunità calcistica brasiliana: il calcio danzato.
Qualche sera fa ho incontrato Italo Cucci e gli ho chiesto a bruciapelo: “Italo, dimmi in poche parole e con nettezza perché il Brasile ha fatto quella fine”. Mi ha guardato e mi ha chiesto: “Quanti giocatori della Nazionale brasiliana giocavano in Brasile?”. “Uno solo, mi pare”. “Sì, uno solo: Fred. Ecco perché il Brasile ha fatto quella fine: non c’erano brasiliani”. E’ questa la tesi anche di Malgieri: il calcio si è talmente universalizzato che ha finito per perdere le sue particolarità d’origine che erano la fonte del suo stesso gioco universale che, invece, è stato sostituito da una omologazione di base che rende tutto tristemente uniforme. Così mi ritorna in mente quanto scriveva qualche tempo fa Mario Sconcerti in un libro chiedendo a se stesso cosa sarebbe diventato il Brasile con l’unione della danza spontanea con il razionalismo tecnico moderno. Oggi abbiamo la risposta: la fine del Brasile. Io uno che si chiama Hulk o si fa chiamare Hulk non l’avrei fatto scendere in campo innanzitutto per il nome. Anche i nomi hanno la loro importanza. Vero Mané?
Le Nazionali di calcio sono destinate ad esprimere un calcio minore. Le grandi squadre di calcio sono oggi le squadre di club che sono il risultato di una miscela: soldi, atletica, giocatori. Una ricetta esportabile in cui la dimensione dell’appartenenza, della maglia, della tradizione conta molto poco se non nulla. La grande stagione delle squadre nazionali è stata interpretata dalla Coppa Rimet. Con la nascita del Mondiale inizia la fase della decadenza che oggi con il tramonto del Brasile tocca il suo punto più basso in una sorta di nichilismo calcistico. Il pallone è smarrito.
Caro Giancristiano, un unico appunto al tuo pregevole e godibile articolo. Nel 1950, in Brasile, i televisori non c’erano.
Hai ragione, Mario. Ho controllato la biografia di Pelé e “guardavano” la partita alla radio