di Antonio Medici
T’amo, o pio bove … O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,
0 che al giogo inchinandoti contento
Carducci in poche righe raccontava tutto del bovino dal mantello bianco dell’Italia centrale. Un animale possente e mansueto e, proprio per queste sue caratteristiche, destinato al duro lavoro d’aratura.
La meccanizzazione dell’agricoltura ha via via espunto questi animali dalle aziende agricole delle zone più pianeggianti e comode dello stivale. Nelle impervie zone appenniniche di Toscana, Emilia e Marche e lungo altre zone dell’Appennino centromeridionale i buoi tuttavia hanno continuato ad assistere l’uomo nelle sue faticose lavorazioni della terra e quando anche tra questi picchi sono arrivati i trattori moderni, stante la scarsa produzione di latte ma la esuberante massa muscolare questi animali hanno continuato ad essere allevati per la produzione di pregiate carni da destinare al crescente consumo degli uomini. Una storia di fatica e di morte sempre al servizio dell’uomo, quella dei buoi.
Ogni romantica e disneyana tristezza, tuttavia, cessa a tavola per la gustosità delle carni di Romagnola, Chianina e Marchigiana.
La Marchigiana è in realtà allevata lungo tutto l’arco appenninico centromeridionale e trova, si sappia, in Campania alcune tra le sue massime espressioni genetiche e qualitative.
Non fraintenda l’eccezione negativa che oggigiorno ha il termine genetica. Nell’allevamento dei buoi la genetica non ha nulla di artificiale e di costruito in laboratorio. L’animale perfetto si costruisce con sapienza, cura ed investimenti. Gli agricoltori analizzano le fattezze delle proprie vacche e scelgono il toro che possa migliorare le fattezze dei nuovi nati, presso un centro nazionale di classificazione della genealogia tori.
È solo saggezza agricola quella che conduce alla Marchigiana perfetta. E gli allevatori dell’Appennino campano, in particolare quelli operosi delle aspre zone sannite al confine tra Campania, Molise e Puglia, sembrano essere tra i più saggi essendo riusciti ad ottenere numerosi riconoscimenti nei concorsi nazionali.
L’obiettivo della perfezione genetica è duplice: ottenere la tipica, per questa razza, copertura di grasso dei muscoli ed ottenere animali ben grossi.
La copertura di grasso è l’elemento che più concorre alla piacevolezza della carne portata in tavola, in quanto rende possibili lunghe frollature. La frollatura è il processo di conservazione di lungo periodo (a volte anche oltre i 40 giorni) a basse temperature, che conduce ad ottenere carni particolarmente tenere ma che conservano incolore rosacee.
Nicola De Leonardis, direttore di una delle maggiori cooperative di produttori operanti in Campania e esponente di Fedagri, ci dice: “Contrariamente a quel che spesso si pensa c’è una tradizione che si tramanda nei piccoli allevamenti dei coltivatori diretti. In queste aziende lavorano tutti i componenti della famiglia e tutte le attività agricole vengono svolte in funzione di una sana crescita degli animali. I piccoli allevatori auto producono cereali e foraggi destinati all’alimentazione degli animali.” Si tratta, dunque, di veri esempi di agricoltura familiare di cui quest’anno la Fao celebra l’anno internazionale.
Il consumatore, ovviamente, si pone il problema di riconoscere queste carni. A prescindere dall’aspetto che solo un occhio esperto è capace di valutare, bisogna insature un rapporto di fiducia con i macellai, scegliendo quelli che ancora selezionano con cura le carni che espongono nei banconi.
Sul sito www.vitellonebianco.it è possibile verificare la tracciabilità dei capi ed individuare le macellerie autorizzate alla vendita di capi IGP.
(tratto dal ROMA)