di Giancristiano Desiderio
Ho fame. Di tutto. Mangio con la bocca e col cervello. Divoro anime e corpi. Le cose che mando giù le ho già mangiate con gli occhi. Il mio pensiero è affamato. Divora sudore, lacrime, sangue. Prende la vita cruda e verde e la sento sotto i denti del concetto. Corre più di un animale, più di una gazzella o di un calciatore africano. Senza fame non si fa niente di buono. La vita è una conquista dalla nascita alla morte. Una battaglia senza pace. L’amore – eros – altro non è che una tecnica di conquista. Siate folli e affamati, mi pare abbia detto Steve Jobs. Voleva dire provateci, rischiate, giocate, non abbiate paura di vivere. Diventate voi stessi. Invece, l’Italia ha paura di vivere. Ha un centravanti nero che è più bianco dei bianchi e con un nome così italiano – Mario – da essere la parodia di se stesso. Mario detto Supermario come Superpippo non è affamato ma viziato e crede che tutto gli debba essere dato, servito, riconosciuto. Non vuole segnare per fame ma per essere osannato. Così al momento giusto non sa che fare. Si impappina perché vuole la pappa bella e pronta. Suarez no. Il Pistolero spara. Soffre, suda, sputa e segna. Ha un ginocchio malandato ma sfida il dolore. Due palle e due gol. Ora vuole sparare agli italiani. Non fa il finto buono. E’ pronto alla battaglia. E’ cattivo ma giusto. Il bene è affare serio. Una pratica, non una predica. Un dovere, non un diritto. Una conquista, non un titolo.
Gli italiani non sanno vincere perché hanno paura di perdere. Nel calcio e nella vita. In politica e nel pensiero. In tutto. Ho sentito dire cose come queste: “La Costa Rica è una squadra piccola e giocare con le squadre piccole è più difficile che giocare con le squadre grandi”. È un giudizio così contorto e contraddittorio che non è un giudizio. E’ un bigodino. La squadra piccola è l’Italia che non vuole vincere ma vuole non-perdere. Confonde la non-sconfitta con la vittoria e se vince si inebria della sua piccola furbizia confondendo il risultato con la gloria. Così le storie che ci raccontiamo sono fasulle e alimentano falsità. Non siamo un Paese di affamati ma di mangioni. Non mangiamo per conquista ma per calcolo perché al rischio preferiamo l’accomodamento. Le mazzette non sono il frutto della corruzione ma dello statalismo che infiacchisce tutto, anche il male. Non è il potere che corrompe ma siamo noi che corrompiamo il potere perché del potere non sappiamo che farcene se non per fregarci tra noi. Siamo individualisti statalisti: vogliamo lo Stato perché non ci fidiamo l’un l’altro. Siamo amici solo perché non sappiamo essere fieri avversari. Una cultura che puzza di mafia. Il timbro nazionale è la commedia, non la tragedia. Siamo un Paese che odia la politica ma vuole dipendere dalla politica e dallo Stato. In tutto. Crediamo nello Stato etico non per convinzione ma per comodità. Chiediamo di essere assistiti per tutta la vita in tutto: nella sanità, nella scuola, nella giustizia. Così finiamo per pagare tutto due, tre volte: la scuola il doppio, la sanità con un’assicurazione, la giustizia con le parcelle degli avvocati e la cultura maldestra dei giudici. Invochiamo la lotta all’evasione fiscale non per giustizia ma per invidia. Non ci mettiamo in gioco perché temiamo che gli altri giochino meglio.
In un libro – Mover, liberilibri – ho letto la storiella di una nonna. Ci sono due fiori che crescono ai due lati di un muro. Uno sempre al riparo e ben curato dal giardiniere, l’altro è esposto ai cambiamenti del clima e delle intemperie. Un giorno il giardiniere non va più a curare il fiore e il fiore, abituato alle sue cure, appassisce e muore. L’altro fiore invece continua a crescere e diventa una frondosa pianta e alla sua ombra altri fiori nascono e crescono. La cultura nella quale siamo è quella del fiore ben curato che muore appena le cure finiscono. Crediamo che le cure ci siano dovute e siamo già malati prima ancora di vivere. La cultura italiana, a partire dalla scuola, rimuove tutto ciò che ha a che fare con la conquista, il conflitto, il dovere, la sofferenza. Tutto deve essere garantito. Anche i ciucci: tra i banchi e in cattedra. Tutto diventa falso. Bacato. Non si può bocciare, non si può licenziare. Così la scuola – che già di per sé è un metodo fiacco per creare umanità – diventa un ufficio di collocamento all’insegna dei diritti, dei titoli e della legalità che sono incapaci di diventare doveri, cultura, leggi. L’Italia in campo è una squadretta furba che ha dietro di sé un Paese astuto che studia non per la gloria ma per fregare il prossimo. Se vinciamo ci raccontiamo la storia ancor più falsa dell’Italia operaia, lavoratrice, umile. Non c’è storia più falsa. Non siamo umili, né operai. Siamo dolciastri. Fiacchi. Ma pettinati. Non sappiamo più mangiare: con tutti i programmi televisivi sul cibo che mostrano prelibatezze e cacchette finiamo con non saper neanche più divorare pastasciutta e peperoni. Ci accomodiamo quattro noci nel piatto come piace a noi pur di non vedere le cose come stanno. L’ultima cosa che vogliamo fare è fare i conti con la realtà. Qualunque cosa sia questa cosa strana che ci sbatte in faccia: un pallone, un governo, un’organizzazione criminale. Siamo un Paese triste che finge di essere allegro. Se perdiamo ci piangiamo addosso. Se vinciamo ci scordiamo il passato. Viviamo in un mondo finto credendo che sia vero perché abbiamo paura di perdere le comodità che abbiamo e che perdiamo giorno per giorno per l’incapacità di riconoscere che vive e cresce solo chi ha fame. Non di solo pane.