di Giancristiano Desiderio
Non me ne frega niente ma sono il contrario del menefreghista. Dice: Che fai? – Resisto. Che altro dovrei fare. A me di Mineo, Orfini, Orsoni non me ne frega una beneamata mazza. E, in fondo in fondo, anche di Renzi non mi frega un cazzo. Uno così ce lo siamo meritati tutti. Uno che ha modi spicci, che ha fretta, che se ne fotte, che fa perché deve fare e non perché sappia bene cosa fare non è il frutto del caso ma della necessità di uscire dalla merda. Pare che Keynes dicesse che la difficoltà non sta nelle nuove idee, ma nel liberarsi da quelle vecchie. Ma l’autore della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta non sapeva, o pensava che fosse superfluo dirlo, che la difficoltà più difficoltà consiste nel liberarsi da idee che non si hanno. Mentre l’autore della Teoria generale delle stronzate – io, prima o poi lo scrivo questo saggio sul fondamento delle stronzate – sostiene che nel tempo delle stronzate è impossibile liberarsi dalle stronzate che sono l’unica cosa prodotta a ciclo continuo dal momento che può contare sulla proletarizzazione dei mezzi di produzione. Il diritto alla stronzata è il frutto estremo e medio delle democrazie.
Mi viene alla mente quella scena di Miseria e nobiltà – scusate, io sono di quelli che citano i film di Totò e non Pulp Fiction, anche se a volte mi vien voglia della 9mm di Jules, ma son cazzate – dicevo che mi sovviene la scena in cui arriva il padrone di casa e i miserabili lo vogliono far accomodare sulla sedia migliore ma tutte sono malandate e bucate e mentre dicono “no questa no, prendete la migliore” Totò dice la verità che, come quasi sempre accade, è insieme comica e tragica: “La migliore non c’è”. Proprio così: la migliore soluzione non c’è, mentre c’è quel che passa il momento e il momento è la decadenza di un paese che si è fatto del male perché a chiacchiere diceva di voler cambiare ma nei fatti corporativi chiamati impropriamente diritti era fermo, fiero e furbo – fesso – nel non volere nulla per piangere e fottere. A furia di fottere si è fottuto.
La situazione è grave, siate leggeri. Alberto Arbasino come al solito ha ragione ma è una ragione di cui non te ne fai una sega. Perché? Ma come perché? Perché cosa volete che conti oggi la cultura, su. Oggi conta la Pseudo-Cultura (dice Arbasino nei suoi Ritratti italiani, Adelphi). Cultura che? Pseudo. La falsa cultura, roba finta, posticcia. Al principio del secolo scorso Croce se ne uscì con una parola orrenda che gli hanno sempre rinfacciato: pseudoconcetti. La parola fa cagare ma il concetto fa pensare, è sacro e santo. Ciò che dice Arbasino ha la stessa origine e il medesimo significato: è la maschera della cultura, la finzione, c’è anche la parola precisa che ci fa capire heideggerianamente il cesso nel quale già siamo: fiction. Nella pseudocultura ci sguazziamo da mane a sera. Chi fa le cose difficili chiama questa condizione deiezione ma sempre di merda si tratta. Non è un male. E’ una condizione naturale, inevitabile, necessaria. Altrimenti la cultura non servirebbe davvero a un cazzo. Che cos’è la cultura? Sollevamento pesi. Si solleva il peso della vita dalla finzione alla verità, dal luogo comune al giudizio. E’ una fatica del cazzo ma non c’è altro sistema perché pensare è roba da facchino. Il male allora dove sta se dobbiamo per forza partire dalla merda e spalare? Nel ritenere che la cultura finta sia la cultura vera, nel credere cha la merda sia arte, la puzza sia profumo, le stronzate pensiero. Dice Arbasino: siate leggeri che è un disastro. Allora lo dico con una parafrasi di Hegel: il nostro tempo è appreso nella comunicazione.
La resistenza è vana ma va fatta. Resistere significa fare il proprio dovere senza avere la fissa di credere di sapere dove vada il mondo. Ma che ne so io dove va il mondo. Lo saprà lui, il mondo e poi quelli che si impalcano e si presentano come i suoi interpreti ufficiali; ma io non lo so e l’unica cosa che posso fare è tenermi stretto a quel piccolo mondo che è il mio dovere: lavoro, famiglia, cura e qualche volta rompere il culo a chi ti vuole imporre verità e potere perché ha vinto le elezioni. La democrazia è diventata la pretesa della pseudocultura di farsi i cazzi degli altri perché si sono vinte le elezioni. Nel suo fondo la democrazia ha un istinto illiberale che va tenuto a bada. Il senso della resistenza è nella decenza. Non c’è niente di meglio da fare al mondo che il proprio dovere (anche quando hai l’illusione o la consapevolezza che non coincida più con una patria comune). Niente meglio del proprio dovere tiene a freno l’istinto illiberale della democrazia: il dovere sta con i piedi per terra. Facciamo già una vita fin troppo astratta, dominati dalle fesserie della pseudocultura, per mettermi a inseguire il destino del mondo. Fateci caso: gli italiani – voi, gli italiani siete voti, brava gente – sono sempre impegnati in grandi dibattiti, hanno sempre l’aria di chi discute delle visioni del mondo, ne fanno sempre una questione di vita o di morte, che sia meridionale o settentrionale, di destra o di sinistra, costituzionale o anticostituzionale e rifuggono dai concreti doveri come da un morbo malarico. C’è sempre una fondamentale legge che manca a cui fare appello: la coscienza morale completamente persa nelle stronzate invoca una legislazione universale che faccia trionfare la giustizia una volta e per sempre. I grandi dibattiti hanno la funzione di coprire i piccoli interessi. I grandi dibattiti sono comodi perché per farli non serve la cultura ma la pseudocultura, gli slogan, la comunicazione, le parole magiche, le parole tra noi pesanti. Resisto lavorando e chiavando per non farmi trovare vergognosamente dalla morte in ozio stupido.