di Giancristiano Desiderio
Norberto Bobbio diceva di Giovanni Gentile: “E’ illeggibile”. Se avesse letto Massimo Cacciari, cosa avrebbe detto? Mi sono sempre chiesto: “Per chi scrive Cacciari?”. Ma non ho mai trovato una risposta. Ora me lo chiedo ancora una volta ma a voce alta perché me ne fornisce l’occasione la pubblicazione, da parte di Adelphi, dell’ultimo libro del filosofo veneziano: Labirinto filosofico. Il titolo è tutto un programma. E siccome qui si scrive della scrittura di Cacciari è bene dare subito un assaggio e riportare uno dei passaggi più chiari delle prime pagine: “Ritorno alla cosa stessa, al pragma touto, autentico realismo, è comprendere l’irriducibilità dell’integrità dell’essente alla ousìa determinabile. Un àgnoston divino è proprio il tòde ti, il questo del carattere individuo di ogni essente, quel ‘dèmone’ che irradia in tutti i suoi volti e costituisce l’uno a fondamento di tutte le relazioni che lo caratterizzano”. Capito? Lo possiamo dire in tre parole comuni: la natura è una cosa chiusa in se stessa. C’è qualcuno che cerca di capire la natura e si interroga? Sì e Cacciari prosegue così mischiando a suo piacere Aristotele, Heidegger e Wittgenstein: “A un tempo, l’essente non può essere compreso senza quell’essente che intende conoscere se stesso, e cioè senza la méthodos della psyché, che costituisce la sola ‘apertura’ dell’essente alla considerazione di sé”. Anche qui possiamo dirlo in tre parole: l’uomo conosce la natura. Quindi il discorso prosegue con il compiacimento della complicazione: “Questa unità è insieme la differenza irriducibile – irriducibile ad ogni determinazione esaustiva, che, in quanto tale, sia perciò in grado di ‘oltrepassarla’. Chiamiamo physis il suo ri-velarsi e meta-fisica l’insistere su di essa dell’interrogazione, e cioè sulla relazione, interna a physis, tra la presenza determinabile dell’essente e il suo essere-immediato, e tra questa idea integra dell’essente in generale e quell’essente che è physis”. Anche qui è possibile esprimersi con chiarezza: la conoscenza umana della natura non è mai completa e la natura stessa è data dall’esistenza dell’uomo che non smette mai di interrogarsi sulla natura e su di sé. Allora, per chi scrive Cacciari?
E’ difficile immaginare che un lettore comune possa leggerlo. Manzoni, con la sua esemplare prosa, diceva d’avere venticinque lettori. Cacciari ne ha qualcuno in più ma non molti di più: sembra che i lettori o, meglio, gli acquirenti, di un testo così oscuro siano meno di cinquecento. Se non scrive per il lettore comune, Cacciari scriverà forse per gli studenti dell’università. E’ un’ipotesi veritiera perché Cacciari insegna all’Università San Raffaele di Milano. Soprattutto è un’ipotesi che fa capire come la filosofia italiana sia diventata uno sterile esercizio accademico in cui il professore non è un filosofo e il filosofo è un professore (pasticcione). Ma l’ipotesi più vicina alla realtà è questa: Cacciari scrive per se stesso. Il suo fine è un po’ quello del poeta barocco: destare meraviglia, stupore per essere ammirato. Ascoltate questo passo: “Come mostrare questo nesso tra evidenza e oscurità? Il thaumàzein procede dalla meraviglia per l’esserci dell’ente a quella per la sua connessione con ciò da cui differisce, a quella per il nascondimento che nella sua stessa disvelatezza si mantiene, e si mantiene proprio come ciò che lo ‘salva’ nella sua singolarità. Ma la meraviglia – che conferma quest’ultima, la approfondisce, e insieme apre a un ulteriore orizzonte – è quella che si esprime in forza del rapporto con Physis di quell’ente, zoon, parte vivente di Physis, che è l’esserci che la osserva e analizza, fino anche a pensare di poterne disporre”. A volte penso che la colpa più grave di Heidegger non sia stata l’adesione al regime di Hitler bensì la riproduzione o replica in scala minore del suo pensiero (che però non è una colpa di Martin Heidegger). E’ un fenomeno tipicamente italiano che un buon professore di filosofia dell’università di Napoli, Fulvio Tessitore, una volta così definì: “In Italia ci sono gli heideggeriani di provincia”.
Il caso Cacciari, però, non finisce qui. Sembra che alla maniera del dottor Jekill e di mister Hyde anche quello di Cacciari sia uno strano caso. C’è una grande differenza tra il Cacciari filosofo e il Cacciari politico: tanto il primo è oscuro e labirintico, quanto il secondo è chiaro e lineare. Almeno questo è un merito che gli va riconosciuto: non mischia indebitamente filosofia e politica. I due “discorsi”, però – proprio perché la cosa non si lascia rappresentare pienamente dal concetto – sono non distinti quanto separati, con il risultato della doppia sterilità: della filosofia e della politica.