di Giancristiano Desiderio
La parola più calzante per definire Vujadin Boskov è autenticità. Lo vedevi nel dopopartita con la sua facciona da contadino e sapevi di ascoltare cose vere e gustose. Da calciatore giocò come mezz’ala e non so se giocasse a destra o a sinistra ma so che gli si addiceva alla perfezione il titolo della raccolta di poesie di Fernando Acitelli: La solitudine dell’ala destra. Perché aveva qualcosa di solitario Boskov, come tutti i contadini abituati a coltivare la terra e a guardare il cielo, come tutti i serbi fedeli all’idea di patria piccola o grande che sia, come tutti gli uomini che non amano parlare molto ma quando parlano o accarezzano o picchiano. La scena è di quelle che non si dimenticano. Aveva perso la bellezza di sei gol a zero. Nessuno in sala stampa aveva il coraggio di porre la prima domanda. Ci pensò lui a dire tutto in una battuta: “E’ meglio perdere una volta 6-0 che sei volte 1-0”. Questo era Boskov, il signore del calcio, come è stato chiamato, e non a torto.
Vialli e Mancini erano forti. E non solo loro. Lombardo. Vierchowod. Pagliuca. Ma senza Boskov quella Sampdoria non sarebbe stata la Sampdoria dello scudetto. Dell’unico scudetto. Quando aveva ormai il titolo in tasca, dopo aver vinto con l’Inter a San Siro, Boskov così disse della figura dell’allenatore ossia di se stesso: “Siamo accompagnatori ben pagati, possiamo incidere fino al 10 per cento in positivo, fino all’80 in negativo”. Ancora: “E’ la legge del calcio: i giocatori vincono, gli allenatori perdono”. Da uno così saresti disposto a prendere non solo lezioni di calcio ma anche di vita.
Vujadin Boskov è venuto al mondo nel piccolo paese di Begec e all’età di 83 anni è uscito dal mondo nel piccolo paese di Begec. Era già una leggenda del calcio. Lo sarà ancor più. La sua frase storica è: “Rigore è quando arbitro fischia”. Sembra una frase uscita dal Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein con l’unica differenza che anche l’allievo di Russel avrebbe imparato qualcosa da Vujadin Boskov: l’ironia, ad esempio. Il filosofo ne era sprovvisto – brutta storia se un filosofo è privo di ironia – mentre l’allenatore ne aveva da vendere. Come la poesia che a volte gli usciva di bocca anche grazie al suo italiano essenziale. Quando Gullit, che giocava nel Milan, arrivò alla Samp, Boskov disse: “Gullit è come cervo che esce di foresta”. Un’immagine poetica per figurare il talento animale del grande giocatore olandese. Quando Gullit un anno dopo ritornò al Milan, Boskov disse: “E’ tornato nella foresta”.
Boskov era uno che giocava a calcio con gusto. Si vedeva che gli piaceva. Voleva giocare. Non difendersi, non chiudersi, non arroccarsi ma giocare. Amava i giocatori di talento. Diceva: “La zona? Un brocco resta brocco anche se gioca a zona. Dov’è lo spettacolo?”. Lo spettacolo era lui. Dovessi azzardare un profilo direi che Boskov era un po’ la sintesi di Rocco e Liedholm. Non so neanche bene perché. E’ una cosa che sento a pelle e forse riguarda più l’uomo che l’allenatore. Aveva qualcosa di rude e di dolce, di vero e di onesto proprio come il grande Nereo Rocco e l’indimenticabile Barone. Che cosa direbbe del calcio attuale interpretato attraverso i cosiddetti Big Data? Sapete che una partita di novanta minuti sviluppa in media tra i 1600 e i 2000 dati? Così direbbe Boskov con la sua ironia: “Il pallone entra quando vuole Dio”. Leggendario.