di Giancristiano Desiderio
Sulle mie visite alla Reggia di Caserta potrei scrivere non un articolo ma un libro. E non solo io. Avevo tredici anni quando con la scuola andammo tutti insieme appassionatamente in gita alla Reggia di Carlo III. Mi si aprì un mondo. Nei sontuosi giardini c’era di tutto: automobili, motorini, vespe, biciclette, pattini, palloni. Il giorno dopo tornai con i miei amici e il nostro immancabile Super Santos. Nessuno ci disse niente. Entrammo e basta. Così è sempre stato. Quando frequentavo l’ultimo anno di liceo avevo una ragazza di Maddaloni che, fingendo di studiare la rivoluzione napoletana del 1799, si era fissata per Ferdinando e Carolina e voleva che la portassi negli “appartamenti reali”. Ma ero squattrinato. Avevo appena finito di leggere Così parlò Bellavista e mi ricordai delle pagine in cui Luciano De Crescenzo parla di Zorro che riusciva ad entrare allo stadio San Paolo sempre con un escamotage diverso. Decisi di applicare il “metodo Zorro” alla Reggia: dissi alla ragazza “mettiti elegante e prendi i libri di storia dell’arte”. Andai alla Reggia e mi presentai come il nipote del sovrintendente in visita alla Reggia per studio: “Prego, accomodatevi”. Lo scrittore casertano Francesco Piccolo nel suo ultimo libro Il desiderio di essere come tutti racconta la sue visite ai giardini della Reggia: scavalcava il muro e, oplà, eccolo furtivo e felice nell’Eden. Durante i miei studi universitari facevo la stessa cosa con naturalezza e senza senso di colpa. Leggevo della filosofia del giardino del grande Rosario Assunto e mi dissi: “Quale migliore posto per gustarla se non i giardini vanvitelliani?”. Con De gli eroici furori di Giordano Bruno feci la stessa cosa: preso da furore non proprio eroico scavalcavo e nei pomeriggi primaverili andavo a leggere davanti alla fontana di Diana e Atteone in cui la dea trasforma il cacciatore in cervo. Nessuno mai mi ha dato la caccia. Nemmeno Diana. Una volta, saranno passati ormai vent’anni, ho fatto da Cicerone per una coppia di sposi. Erano dei miei cugini che vennero dalla Sardegna ed espressero il desiderio di visitare la Reggia. “Vi ci porto io” dissi loro. Per l’occasione andammo in automobile ed entrammo dall’ingresso principale: “Ho un appuntamento con il sovrintendente Jacobitti” dissi e mi fecero passare e parcheggiare. C’è poi il capitolo delle avventure galanti ma siccome il galantuomo gode e tace non ne farò parola. Ma perché metto in piazza le mie avventure e i miei peccati veniali? Perché ho letto dello scandalo degli scandali: Nicola Cosentino aveva nientemeno che le chiavi di un ingresso laterale della Reggia e, per la sua attività di jogging, gliele aveva consegnate il prefetto Monaco. Lo scandalo vero non è il favore fatto a Nick ‘o ‘mericano ma la gestione colabrodo di uno dei complessi monumentali più importanti d’Europa.
Capisco lo sdegno di Claudio Velardi che dice “Renzi cacci il prefetto Monaco che non ha senso dello Stato”. Ma, a parte che non credo che sia stato il prefetto a dare le chiavi a Cosentino quanto, piuttosto, sarà stato Cosentino a dare le chiavi al prefetto, questa vicenda dimostra quanto tutti sanno: la Reggia è patrimonio dello Stato ma lo Stato non sa come gestirla, né vuole farlo. Nei fatti la Reggia è dei casertani che ne fanno ciò che vogliono. L’altro giorno il casertano Angelo Agrippa in un articolo esemplare ha ricordato come in città ci siano sempre stati centinaia di duplicati di chiavi della Reggia. Sono talmente tante le copie delle chiavi che vanno di mano in mano che i sovrintendenti e i dirigenti fanno semplicemente finta di non sapere. La deputata e candidata del Pd Pina Picierno ha organizzato una messa in scena per “restituire le chiavi della Reggia ai casertani”. Ma la verità, come sanno tutti, è opposta: sono i casertani che devono restituire le chiavi della Reggia. Il dramma è che pur volendo non saprebbero a chi darle.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 20 aprile 2014