di Giancristiano Desiderio
Nella vita è necessario lavorare ma, soprattutto, è necessario lavorare la vita. E’ vano nutrire illusioni su una vita dopo la vita o su una vita tranquilla e priva di lotta. La vita è nel suo cuore di tenebra solo e soltanto lotta. La sua stessa esistenza in vita è lotta. Gli ideali trascendenti, che siano teologici o secolari non fa differenza, sono il frutto di un egoismo che vorrebbe il benessere senza il malessere, il piacere senza il dolore, il bene senza il male, la vita senza la morte con la vittoria finale di Ormuduz e l’avvento definitivo della vita perfetta o compiuta. La vita eterna e la verità definitiva sono i sogni sognati dagli uomini che vogliono l’impossibile: la vita e la verità per sempre. La vita compiuta non solo non è umana, non è neanche divina. Il compimento è solo la lotta. Polemos. L’uomo non può né avere né essere nulla per sempre. Meno che meno la lotta, di cui è il fiore incarcerato. L’uomo, se ne sarà capace, potrà avere ed essere la metà di sempre. Come la fiamma che brucia se stessa.
Se anche l’essere per essere deve lottare, come può l’uomo pensare e sperare di poter vivere per sempre senza lottare? Senza lotta il pensiero e la speranza non sono pensiero e speranza giacché pensiero e speranza fioriscono e fruttano solo nella contesa. Senza il contrasto il pensiero è poco più di un fantasma capace di generare le illusioni dell’identità o i piagnistei del nichilismo. Il pensiero è incarnato e vuole pane per i suoi denti. Quando Rosmini prese a criticare Hegel disse che il suo pensiero fa divenir pazzo l’essere. Il prete mal visto dalla Chiesa aveva le sue buone ragioni ma la pazzia dell’essere era proprio quanto voleva Hegel che dalla logica astratta del saldo e immobile essere di Parmenide – atremes e akineton – voleva uscire per pensare l’essere nella concretezza terrena e terrestre del suo delirio bacchico. L’essere preso per sé e il nulla preso per sé non sono neanche nulla ma nullità. Vacuità. L’essere reale e il nulla concreto sono nel divenire che non attende il nostro assenso per viverci e ucciderci. Quando arriviamo a porci la questione – se vi arriviamo – siamo già da un bel pezzo nel mezzo del “gran mar dell’essere”.
Il senso della terra è anche il senso del pensiero. La verità è più terrena che celeste e tanto la terra quanto il cielo sono metafore per dire che il pensiero – il cielo – pensa il senso – la terra. L’uno è l’altro. Perciò il pensiero è fatica da facchino: è senza posa, senza pausa, senza sosta perennemente in lotta con le positive negatività che si sforza di qualificare, schiarire e vedere. Non c’è meta da raggiungere che non sia la vita stessa nella sua qualità di vita bella, vita vera, vita sana, vita attiva che di continuo si rinnova attraverso il passaggio delle forze contrastanti con cui la vita scende e ascende. La meta del pensiero è la vita e la meta della vita è il pensiero. Proprio perché il pensiero è legato al senso, il suo scopo è quello di sollevarsi dalla doxa all’aletheia ossia dall’opinione comune a un giudizio più rigoroso per poi dar corso nuovamente alla vita comune, ordinaria e straordinaria. La funzione del pensiero è essenzialmente liberatoria: libera noi da noi stessi, dal nostro passato per consegnarci alla vita presente e futura per lasciarci vivere. Ecco perché la filosofia in senso stretto – come pensiero – pur essendo necessaria non è un esercizio costante della vita: è necessario che intervenga solo quando c’è bisogno di luce ma una volta svolto il suo compito illuminante è bene che si ritragga per lasciarci vivere. La filosofia o è lavoro della vita o non è. E’ il motivo per cui la filosofia, la più vera filosofia è occasionale: ha origine dalla vita che chiede luce per vivere. E per lo stesso motivo i professori, gli accademici, i pedanti, i moralisti ci disturbano e ci infastidiscono per la sterilità accademica dei loro ragionamenti che si dimostrano, privi di vita come sono, come il teorema di Pitagora.
La lotta è per sempre ma la vita umana nella sua singolarità ne è solo la metà. Vorremmo il Sempre ma non ci appartiene che nella nostra costretta individualità che ha il suo destino nella consunzione del suo elemento vitale. Siamo la metà di sempre perché siamo sempre per il tempo che ci è toccato in sorte di vivere. Siamo parte della creazione non meno che della distruzione. La vita si rinnova ma il suo rinnovamento è la nostra morte. Gli uomini cercano di superare la propria mortalità con i figli, con le opere, con le audaci imprese, con la gloria e anche incendiando il tempio di Artemide. Il gran mare dell’essere è un mare in tempesta ed è solo un pregiudizio o forse una somma invidia quella che ritiene che i migliori siano coloro che lo solcano con serenità e tranquillità, mentre a volte i migliori sono gli spiriti tempestosi che affrontano il mare aperto con coraggio e lucidità. E’ la vita nella sua qualità naturale a darci sempre da pensare. Il pensiero preso fino in fondo è solo un dovere verso la vita. Nella sua stessa vitalità, animalità, bestialità. E’ solo un modo per creare vita degna di essere vissuta. E’ un modo per qualificare la verità attraverso l’unico modo possibile: nella consapevolezza che il bene è la redenzione del mondo dal male di cui è necessariamente fatto per essere. A chi, cercando il paradiso al di là o al di qua non fa differenza, mi osserva che questa visione delle cose è stretta non so che dire. Perché mi pare che il pensiero e la vita concepiti come lotta con il falso e il male che si portano dentro per loro statuto di nascita, tutto possano essere tranne che piccoli e stretti.