Gli occhi di mia madre sono tristi. Dalla piccola stanza 408 guardano fuori, come alla ricerca della luce. Il mondo visto dal quarto piano dell’ospedale Rummo di Benevento si manifesta più piccolo. Dalla finestra rettangolare, alta e stretta, si vede uno spicchio del vialone intitolato alla memoria di Raffaele Delcogliano e le automobili che vanno di qua e di là diventano più piccole ed entrano ed escono dallo specchio della finestra come le macchinine che fanno brum brum di quell’Italia di una canzone per me ora ignota. Sono seduto vicino a mamma che ogni tanto mi guarda ma non parla e mentre la nostra compagna di stanza racconta di una terapia che le avevano prescritto a Bologna, leggo con qualche fatica un romanzo di Moravia – 1934 – che inizia con una domanda dalle molte risposte: “E’ possibile vivere nella disperazione e non desiderare la morte?”. Mia madre vive nella disperazione ma vive. Non desidera morire. Vuole vivere anche se i suoi occhi non hanno più quella luce che lei insegue al di là della finestra.
Scrivo la storia della sofferenza di mia madre e della nostra famiglia per chiarirla. L’altra sera, quasi per rendere inconsapevolmente omaggio ai malati e ai sani che ogni giorno mi sfiorano e salutano, ho pubblicato due righe su Facebook: “Assisto mamma in ospedale e trascorro molto tempo al Rummo, così tanto che oggi un vecchio su una barella mi ha detto: ‘Dotto’, mi operate voi?’”. Un modo per sorridere, persino della stessa cattiveria che ci portiamo dentro e, anch’essa, ci sorregge. In molti si sono soffermati su quelle poche righe, vi hanno riconosciuto il dolore e mi hanno augurato la guarigione di mia madre. Grazie. Ma mamma non può guarire. Per la sua malattia non ci sono terapie di guarigione ma solo cura, amore, pazienza. La sua non è neanche una malattia ma una bestia che le ha afferrato il cervello e non lo mollerà più fino alla fine. Con questa bestia che le ha immobilizzato metà del corpo mia madre combatte ogni istante e noi – io e i miei fratelli, Giorgio e Dario – combattiamo con lei per quello che possiamo fare. Ci aiutano e assistono tre signore: Maria, Vittoria e Tina che si alternano nell’arco delle 24 del giorno e della notte. Prima al posto di Vittoria c’era Giacomina che io chiamavo con affetto e il divertimento di mio figlio Giacobazzi. Ogni tanto la signora Giacomina passa per una visita e mamma la guarda con emozione.
Qualche anno fa io e mamma seguivamo il caso di Eluana Englaro. Lei, che non sapeva già di essere segretamente aggredita dalla bestia, era intimorita da quella storia e mi ripeteva con terrore che rifuggiva da quel destino. Oggi mia madre ha bisogno di noi per vivere. Ha bisogno di noi anche per morire. Oggi mamma vive e vedo nei suoi occhi tristi che si emozionano e rispondono quando la baciano i nipotini che vuole vivere. Domani non lo so. E ripeto a me stesso che è giusto così. Perché nelle vite così estreme in cui l’animale morente tocca la morte non ci sono regole precise e valide per tutti – malati e sani. Qui ogni vita ha una sua regola e mi pare di toccare con mano la verità del pensiero che mi ha educato e che mi dice che l’universale è il particolare.
Fino a qualche settimana fa abbiamo dato da mangiare e bere a mamma con il cucchiaino. Ora non è più possibile. Siamo al Rummo proprio per questo. Mamma dovrà essere nutrita ora con una Peg. Il nome tecnico è gastrostomia endoscopica percutanea. Il risultato concreto è che potrà essere nutrita attraverso un sondino. E’ stata operata e ha risposto bene. Si dovrà abituare o, forse, saremo noi a doverci abituare. Ma ora davanti a noi – sperando di ritornare quanto prima a casa – abbiamo una certa prospettiva di vita ancora insieme. La Peg è, in fondo, una tecnica nutrizionale per dire ancora sì alla vita anche quando la vita sta dicendo no a se stessa. C’è tanto dolore ma la vita senza dolore non è neanche un’illusione. E’ un’inconsistenza. La nostra cultura occidentale in quanto dice sì alla vita dice sì al dolore, che lo sappia o no. Il cristianesimo è (anche) questo. L’autore de L’anticristo era il più cristiano di tutti quando diceva il suo incondizionato sì alla vita. Ma non credo di poter dire che si debba essere sempre e comunque all’altezza di questo Incondizionato. Noi non siamo i padroni della nostra vita, è vero; ma quello che si chiama “accanimento terapeutico” diventa a volte proprio il tentativo di padroneggiare la vita, una forma di egoismo travestito da amore. Dobbiamo anche imparare ad amare lasciando andare.
Abbiamo scoperto la malattia di mamma all’inizio del 2010. Prima il piede, poi la mano, quindi il braccio. La stanchezza. Visite. Consulti. Diagnosi. Viaggi. Abbiamo fatto tutto, ascoltato più medici ma il risultato è stato sempre lo stesso: un aggressivo parkinsonismo. Quale l’origine? Non si sa. L’unica cosa che si sa è che la bestia si manifesta quando è già presente e attiva da cinque anni. Cinque anni prima – 2005 – morì mio padre. Può un grande dolore essere la causa di una malattia? Quando pongo questa domanda i medici mi guardano con scetticismo. Un grande dolore può generare un dramma psichico e una forma di depressione ma una malattia organica è altra cosa. E’ vero, è altra cosa. Eppure, nella storia di mia madre il male inizia a vivere quando muore il suo amore. I cinque anni indicati dai medici iniziano nella primavera del 2005 quando papà andò via per sempre alle 7 del mattino. Credo che mia madre non abbia retto il peso del dolore. In fondo, non è solo l’io ad essere un “prodotto” del cervello ma è anche il cervello ad essere un “prodotto” dell’io. Un caro amico una volta mi ha detto: “Certe cose non le sanno i medici ma solo i familiari”. C’è una parte di verità.
Gli occhi di mia madre sono tristi ma si illuminano e prendono vita quando le parlo di mio padre. Il loro legame, non privo di drammi e sofferenze come gli amori veri, era così forte che tutt’ora non c’è l’uno senza l’altro. Oggi mamma parla solo con i suoi occhi tristi. Non è facile sostenere quello sguardo crepuscolare ma sono gli occhi che mi hanno dato la luce e che ora la chiedono a me. Faccio ciò che posso, ciò che lei stessa mi ha insegnato a fare, anche se a volte avrei voglia di scappare, anche solo per tornare a casa.
Mirabile penna quella che riesce con tanta semplicità’ , persino con ovvieta’, a descrivere sentimenti e convincimenti che albergano in ciascuno che, a volte, neanche si ha la consapevolezza di possedere.
Bellissime parole..toccanti..Solo chi vive certe esperienze così profonde e vere riesce a comprendere quanto dolore c’è vedere la propria mamma rapita da una brutta bestia e sai che nulla potrà ridartela ..devi solo purtroppo lasciare andare….
Bellissimo ritratto della madre e dell’amore filiale,considerate tutte le implicazioni socio- culturali che mettono in primo piano il problema dell’assistenza terapeutica finalizzata alla resistenza al decesso e alla reale considerazione del rispetto dell’ammalato e dei suoi ,sia pure rari aneliti alla vita.Una vita di sofferenza che ancora avverte la vicinanza affettiva di un figlio,di un nipotino ,vicinanza che alimenta più di un sondino la resistenza alla morte,istillando gocce di amore ,quell’amore x cui la vita stessa è nata.