E’ un lutto silenzioso. C’è il morto ma non si vede. Non bisogna vederlo. Neppure parlarne. Occorre solo dimenticare. A chi chiede, rispondono a mezza bocca : “E’ partito. E’ all’estero”. Tra Marano, Chiaiano e Miano a Napoli la camorra è mafiosa. I conti si regolano al buio. Tutto è sotto traccia. Il profilo è bassissimo. L’omicidio non è plateale. Si ammazza ma senza enfasi.
Il revolver è equipaggiato di silenziatore. Il sangue non scorre. Non si usa l’imboscata, l’agguato violento.
I gangster pistoleri sono a Scampia, a Secondigliano, a Pianura, a Forcella. Lì tanno ammuina. Nei quartieri cuscinetto, la camorra mafiosa, invece, elimina su appuntamento. Con la vittima di turno ci si prende il caffè, si gioca la bolletta, si scherza e si ride. A metà summit, scatta la trappola. Il metodo è alla corleonese: lupara bianca. Il cadavere è come se si smaterializzasse. Di quella persona resta solo il nome. I familiari in cuor loro non perdono la speranza di rivederlo. Rare le ritorsioni degli avversari. Sono delitti griffati. L’occultamento del cadavere è la regola.
Tra Marano, Chiaiano e Miano ci passa l’autostrada della droga. E’ un corridoio che serve per approvvigionare il centro della città di stupefacenti. Chi controlla quell’asse viario è il detentore della logistica dei business criminali. Non è buono fare rumore. Le diatribe devono risolversi. Tutto deve sembrare tranquillo. Quando non è possibile allora si agisce obbedendo a vecchie regole. Sempre le stesse. Sono passati lustri. I metodi sono quelli. I corpi crivellati e straziati finivano nei pilastri delle autostrade o nei viadotti.
Da allora è cambiato poco. Il racconto di più pentiti riferiscono che a Marano e Miano i clan sono più portati alle guerre a bassa intensità. Capiscono la trama e mediano. Cercano di portare l’acqua al proprio mulino. Il “nemico” viene convinto a desistere, a cambiare strada: l’uso della dissuasione è arma segreta. Si cerca di apparare. Nel marzo 2009 tre uomini legati ai Lo Russo spariscono. Inghiottiti nel silenzio. Non si sa più nulla di loro. I loro familiari non si danno pace e sospettano che siano vittime di un regolamento di conti. I loro corpi forse sono stati nascosti in qualche discarica abusiva, seppelliti sotto tonnellate di rifiuti oppure finiti in qualche costruzione edile. Stessa storia per per quattro esponenti del clan Sarno che a metà degli anni Novanta furono costretti a scavarsi le proprie fosse e vennero sciolti nell’acido e poi sepolti.
Anche l’omicidio di Francesco Sabatino, 34 anni, figlio di un ex boss doveva restare un mistero o meglio l’ennesima lupara bianca. Così non è stato. Colpa di una segnalazione anonima giunta alle forze dell’ordine. “Qualcuno ha sparato in un circolo ricreativo in via Teano numero 10, a Miano. Controllate c’è del sangue”. Subito scatta il sopralluogo: ci sono effettivamente piccole tracce di sangue. Qualcuno minuti prima aveva tentato di ripulire con candeggina e ammoniaca. E’ accaduto qualcosa. E’ chiaro. Pochi giorni e alcuni parenti di Sabatino, presentano una denuncia di scomparsa. Il giovane è il figlio di Ettore, ex boss del Rione Sanità, un tempo legato ai Lo Russo, da tre anni collaboratore di giustizia. Fu catturato in Germania. Aveva il vuoto attorno. Un morto che camminava. Allora decise di vuotare il sacco. Si, proprio Ettore Sabatino, un killer tra i più spietati in circolazione, esperto di lupara bianca e addentro alle cose. Quel figlio ha sempre ripudiato il padre dissociandosi dalla sua scelta di vita. A chi l’accusava di essere familiare di un infame rispondeva a muso duro. Ha rinunciato perfino alla tutela dello Stato. Era presente a Miano. Stava in mezzo. Contava e aveva un seguito. Poi inghiottito nel vuoto pneumatico. Ma quella telefonata alle forze dell’ordine ha rotto la segretezza di un rito. Trascorrono dieci giorni e il 15 ottobre scorso è la polizia tra rovi e fango in via Rocco di Torrepadula nell’antico vallone del Frullone – zona Chiaiano – a rinvenire il corpo sfigurato proprio di Francesco Sabatino. Il giovane è stato a lungo torturato. E’ morto tra atroci sofferenze. Il riconoscimento è avvenuto ufficialmente grazie all’esame del Dna.
Chi lo conosceva sapeva che era lui per via del tatuaggio sul braccio: una rosa colorata al cui centro c’è scritto “Maria”. Scenari e vento di guerra a bassa intensità che sta flagellando una città distratta. Laddove non si esplodono colpi di pistola, si scompare. Il lutto nella città di camorra si fa silenzioso.
(tratto dal blog di Arnaldo Capezzuto su il Fatto Quotidiano)