Lettere per dargli coraggio. Vicinanza alla sua anima. Parole di conforto e attenzione. Soprattutto preghiere per garantirgli la salvezza. Don Carmine Schiavone, all’epoca viceparroco di una chiesa del casertano, si prodigava tanto per quella pecorella smarrita. Un ossequio, un’attenzione, una sintonia alquanto inquietanti. Si, perché quel parrocchiano non era uno qualunque ma il boss Nicola Panaro, ai vertici del clan dei casalesi. Il sacerdote nonostante il padrino fosse uccel di bosco, tra i più ricercati d’Italia, intratteneva premurosi rapporti epistolari.
Sette anni di latitanza dove il boss Panaro era assistito da un cerchio magico di familiari, parenti, amici e picciotti. C’era che gli forniva le carte d’identità false, chi si interessava della sua automobile, chi gli bonificava i luoghi dalla presenza di microspie, chi si intestava schede Sky, dei cellulari, chi creava nickname fasulli e prestanome, chi gli comprava via web biancheria intima maschile e femminile tipo stivaletti, occhiali e perizoma, chi gli portava i pizzini a destinazione, chi gli procurava i biglietti per il gran premio di moto di San Marino oppure organizzava un viaggio a Montecarlo. Insomma Nicola Panato faceva quello che voleva perché Nicola Panaro il suo mestiere lo sapeva fare bene: il boss di camorra. Non solo cose materiali. Pensava molto allo spirito, alla sua anima, alla sua religiosità.
Aveva il suo prete che con delicatezza lo sosteneva e gli stava accanto. A svelare i segreti del boss è stata l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip Oriente Capozzi a carico di 14 persone tra cui la moglie di Panaro, Maria Consiglia Diana, il cognato, il fratello, un nipote. Le indagini sono state condotte dal pool della Dda composto da Antonello Ardituro, Giovanni Conzo, Catello Maresca, Cesare Sirignano. Le manette ai polsi le hanno strette i carabinieri di Casal di Principe e del comando provinciale di Caserta. Dalle carte emergono particolari davvero da voltastomaco della corrispondenza intrattenuta dal parroco. “Ti auguro tutto il bene che un prete può augurare a un uomo” è una delle frasi scritte da don Schiavone – all’epoca vice parroco della chiesa Annunziata di Villa Literno – . Nella missiva il sacerdote racconta al boss di scrivere davanti al crocefisso e di essere felicemente la guida spirituale di suo figlio. Il vice parroco non era solo una guida spirituale ma un fiancheggiatore del padrino durante la sua lunga latitanza interrotta con l’arresto tre anni fa. Le sorprese non finiscono perché Vincenzo Schiavone fratello di don Carmine è stato arrestato per estorsione e loro padre ucciso 11 anni fa nel corso di un agguato di camorra. Cosa dire? Non lo so. solo un pensiero piccolo. C’è stato un parroco Don Peppino Diana che è stato ammazzato per opporsi al dominio della camorra in Terra di Lavoro e difendere il Vangelo.
C’è stato un parroco Don Peppino Diana che per scuotere le coscienze anche degli stessi parroci e della alte e miopi sfere della gerarchia ecclesiastica scrisse e diffuse un documento-manifesto “Per amore del mio popolo non tacerò” in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana dove con chiarezza e senza fraintendimenti c’era la condanna al sistema dei clan e dei camorristi. Fa male, fa rabbia, fa sanguinare leggere le lettere di ossequio di don Carmine Schiavone al boss. E’ un salto nel passato E’ un disorientamento pericoloso proprio quando lo Stato sembra aver imboccato la strada giusta nella lotta alla camorra. Occorre un sussulto. Un segnale forte.
Ecco non trovo degno che questo parroco debba ancora indossare l’abito talare. Accertate le responsabilità, verificate le condotte dovrebbe essere lo stesso Papa Francesco a dare un segnale inequivocabile con la sospensione a divinis. Senza se e senza ma è finito il tempo delle ambiguità. La chiesa deve uscire davvero allo scoperto nel segno di Don Peppino Diana e non offenderlo. Il Vangelo va praticato e vissuto non interpretarlo nell’oscurità di una sacrestia e di un crocifisso per interessi personali e di clan a scrivere lettere ai boss latitanti. Don Carmine Schiavone non è il solo.
(tratto dal blog di Arnaldo Capezzuto su il Fatto Quotidiano)