Dopo aver invitato, qualche settimana fa, a corredo della foto di Diego in maglia azzurra, i fratelli napoletani a non dimenticare mai che noi siamo monoteisti, butto giù – non a caso, anzi, volutamente, proprio nelle ore che stiamo vivendo come tifosi del Napoli, qualche ideuzza che mi piacerebbe condividere con tutti quelli che, come me, gioiscono e soffrono per quella maglia che ha il colore del cielo e del mare e che rappresenta, nel football, una delle – pochissime – città del mondo non omologabili. Sicché corro subito, con la memoria, al 19 dicembre del 2010. Al san Paolo si gioca Napoli-Lecce. Partita giudicata, in partenza, facile, e, tuttavia, al 92° il risultato non si sblocca. Poi accade l’incredibile e Cavani, da quel giorno, per me, l’incarnazione calcistica del cavallo bianco del celebre mito platonico, dopo aver corso, criniera al vento, per gli ampi spazi verdi della pianura della verità – Non ridete: certamente è lì l’iperuranio, se è vero che è su quegli spazi verdi che s’è mostrata, a chi ha voluto vederla, l’idea stessa del calcio – sferra un tiro dai trenta metri che abbatte e manda a casa i poveri giocatori salentini. Per una volta almeno, la tammurriata s’era presa la rivincita sulla pizzica, che, per i miei gusti già s’era fatta stantia.
Quell’azione, per me, rappresentò la consacrazione di un nuovo, straordinario giocatore azzurro, destinato a prendere un posto di assoluto rilievo nell’olimpo napoletano, appena qualche gradino al di sotto dell’Uno. Ma non è un caso se, proprio in questi giorni tristi, a me piace ricordare anche altro. Solo una manciata di secondi prima, uno dei calciatori più “modesti” della squadra, Gianluca Grava, aveva salvato la porta del Napoli da una rete sicura. Quel giorno, ai fini della felice risoluzione della gara, Grava valse Cavani. E allora, amici napoletani, lasciate, per un solo momento, le discussioni che tanto ci stanno appassionando sul futuro del Napoli e seguitemi nel ragionamento.
Io non innalzerò nessun cartello né contro Cavani, né contro Mazzarri, né, tantomeno, contro Dela. Detto tra noi: se non arriva qualche sceicco, o qualche americano, oppure qualche indonesiano, conviene tenercelo stretto, il “pappone”. Prendo atto che il calcio, diventato una delle sovrastrutture più poderose dei nostri tempi, non è più luogo di mitogenesi. Il calcio non produce più miti. O, se pure qualche mito s’innalza, dura solo “un peu d’éspace”, come la rosa che, dopo un giorno, ha già perduto la sua veste, per dirla con Pierre Ronsard, il poeta cinquecentesco della Pléiade. (Qua, tra Lavezzì e Cavanì, il faut parler francais, aujourdoui!).
Si racconta che il due volte campione del mondo Garrincha, “in condizione di colpire, secondo Gianni Brera, una bottiglia da venticinque metri con il destro che aveva perfetto”, al governatore di Rio, che gli offriva, per la vittoria svedese, una villa a Copacabana, abbia chiesto, in cambio, la libertà di un uccellino in gabbia. Non sarà stato vero. Ma i tempi dei campioni come Mané partorivano miti bellissimi. Ora i calciatori con la maglia numero “7” sono mutati. Attenti: è lo stesso numero che hanno portato sulle loro maglie Garrincha, Gigi Meroni e Best. Nessun dio pregavano, questi tre, né prima né dopo un goal. E, in verità, nemmeno il dio denaro hanno onorato. Tristi storie, le loro. Mané, poi, il suo amore extra se l’è vissuto con Elza Soares, la cantante di Mas que nada… Buona fortuna, Matador! Grazie per quello – moltissimo – che hai fatto per il Napoli. Ma io non ti rimpiangerò. Questo calcio che non produce miti non mi affascina più. Pensa: avresti potuto – orribile a dirsi – metterti, per le reti segnate, finanche al di sopra di Diego e ho idea che avresti potuto vivere discretamente anche con cinque milioni di euro l’anno. Sei sicuro di aver letto con attenzione tutta la Bibbia? Non è che qualche pagina te la sei saltata? Che so, Matteo 5,3 oppure Luca 6, 24? Tuttavia mi viene detto – anche da gente di “sinistra” – che le cose moderne vanno così e che, di conseguenza, occorre adeguarsi. Ma io non capisco e continuo cocciutamente a pensare che, soprattutto in questi tempi difficili, non sarebbe male se si decidesse di fissare un tetto, oltre che alle pensioni d’oro, anche a certi stipendi di platino. Perché mai il calcio dovrebbe rappresentare una sorta di monade senza porte e senza finestre? Un territorio privilegiato dove tutto continua a scorrere placidamente come se, intorno, non accadesse nulla? Insomma, Matador, per finire, sai quale è stata la mia delusione più grande? Il gesto di Garrincha – quello della gabbia da aprire per ridare libertà all’uccello prigioniero – è, di sicuro, incomprensibile agli uomini, ma è comprensibilissimo agli dei. Avevo creduto, per qualche tempo, che un altro eroe con la maglia azzurra potesse accedere a quel ristrettissimo olimpo. Mi ero illuso. Grande, e ricco, calciatore, di sicuro, lo sei. Ma gli dei, nel calcio, sono altri.