di Giancristiano Desiderio
Finita la prova dell’esame di maturità, altre e più decisive prove attendono i ragazzi e le ragazze dell’anno domini 2013. Più che giusta la nota e abusata frase di Eduardo: “Gli esami non finiscono mai”. Ma per capire il mondo che c’è là fuori, la frase edoardiana non serve più. La particolarità degli esami non è la loro inesauribilità ma la vanità. Stando all’ultima indagine di AlmaLaurea, la documentazione relativa alla disoccupazione per età e titolo di studio ci dice che tutti i giovani italiani, laureati inclusi, nella fase di ricerca e ingresso nel lavoro incontrano maggiori difficoltà rispetto agli altri paesi europei; al contempo, nel corso della vita lavorativa la laurea continua ad essere un buon investimento anche se in Italia è meno efficace che in altri paesi. Insomma, siamo in una situazione in cui perfino i dati non sono molto utili per capire perché forniscono il classico bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Così la recente uscita del sindaco di New York, Michael Bloomberg – “Meglio fare l’idraulico che andare ad Harvard” – si addice soprattutto all’Italia dove non solo mancano gli idraulici – i tecnici – ma non c’è neanche Harvard. Dunque, il primo ostacolo o esame da superare per gli studenti italiani si configura così: mi iscrivo o no all’università?
La maggior parte dei diplomati lo risolve nel peggiore dei modi: decide di iscriversi ma non sa bene a cosa. In questo modo l’università diventa un parcheggio e un duplice svantaggio: non dà laureati di buon livello, che il più delle volte diventano intellettuali disoccupati, e priva il mercato del lavoro di lavoratori (idraulici, elettricisti, manovali). Non è un caso se l’Italia non è più in grado di raggiungere per il 2020 il 40 per cento dei laureati nella popolazione di età tra i 30 e i 34 anni – come vorrebbe la Commissione europea – e si fermerà al massimo al 26-27 per cento. Così stando le cose non ha molto senso chiedersi se l’università deve essere piena o vuota di iscritti. Non è il numero delle matricole, né degli iscritti, né dei fuoricorso a stabilire se l’università funziona o no. L’università italiana è piena e vuota insieme.
In Italia negli ultimi anni si è prodotto un’eccessiva burocratizzazione sia degli studi sia del lavoro e delle professioni. Si è generata l’idea degenere che ad ogni lavoro, impiego e professione debba corrispondere un titolo di studio e che ad ogni titolo di studio debba corrispondere un lavoro, un impiego e una professione. Viviamo (male) in un paese in cui anche per fare il barbiere non è necessario andare a bottega ma seguire un corso regionale per conseguire un titolo. E’ stato creato un mondo di carta a cui non corrisponde alcun mondo reale. Con un’aggravante: il mondo di carta è presto diventato un’illusione e un alibi e ha svalutato in un sol colpo sia gli studi che i lavori. Il disastro italiano è prima culturale e poi, soltanto poi sociale. La politica, non a caso, non sa come uscirne muovendosi in un labirinto che è la manifestazione del nostro declino.