La voce è fioca. Lo stomaco è in subbuglio. Gli occhi sono iniettati di rabbia. A volte in Italia davvero accade di far fatica a pronunciare la parola “Stato”. E’ un familiare di una vittima di camorra. E’ sgomento. Non si rassegna. Combatte solo e sempre per la verità. Sono trascorsi anni. E che significa? Il tempo è un concetto labile, di fronte a determinati fatti traumatici, perde di significato. Gli anni evaporano, si asciugano. Il tempo diviene un’entità staccata dal fluire delle vite. Quelle scene restano vive. Tormentano cuore, mente e anima.
Il dolore è insopportabile. Nulla rincuora. Davanti agli occhi c’è il sangue innocente versato. L’odore di quei colpi d’arma esplosi dai vigliacchi nelle carni innocenti. Il lamento del pianto e i singhiozzi del rimpianto. Lo psicologo dice: “Lei deve elaborare il lutto”. Perdere un padre, una mamma, un figlio, un nonno, un fratello, una sorella, un cugino ucciso da una mano assassina è un atto aberrantee inspiegabile. Allora ti fai forza e con il cuore lacerato, vai avanti o tendi di non andare indietro. Sono spinte che si attenuano. Sono ferite non rimarginate ma disinfettate. Sembra che vivi. All’improvviso mentre passeggi dal cielo cade un grosso baule, si sfracella al suolo e sei catapultato negli stessi attimi del sopralluogo e del riconoscimento del cadavere del tuo caro.
L’aguzzino con il “fine pena mai” esce di prigione. Ha ottenuto la semilibertà. E’ un caso di omonimia ripeti a te stesso. Non è possibile. E’ giurisprudenzialmente impossibile. Acceleri il passo e corri a casa. Ti attacchi al telefono e contatti i tuoi avvocati. Sei certo dell’errore. Il giornale si è inventato tutto, i giornalisti fanno questo ed altro. Dall’altro capo il legale ti rassicura e dice : “Ne parliamo da vicino”. Ecco, la notizia è vera.
Accade nell’Italia del 2013. Un detenuto in regime di carcere duro con l’aggravante dell’articolo 7 (aggravante mafiosa), usufruisce dei benefici di legge. Sei ergastoli per altrettanti omicidi, trent’anni di vita trascorsi in carcere a Rebibbia e quasi tutti in regime di carcere duro (41 bis). Lui si chiama Salvatore Di Maio, è stato luogotenente e killer di Raffaele Cutolo nell’Agro sarnese nocerino. Adesso è un “uomo semi libero”. “Tore o’ guaglione”, “Faccia d’Angelo” questi i suoi soprannomi dopo 30 anni di carcere, con più di 10 omicidi sulle spalle, e senza mai pentirsi, lascia le patrie galere.
Di Maio è finito nelle maglie della magistratura anche per omicidi considerati “eccellenti” come l’uccisione del sindaco di Pagani, Marcello Torre, avvenuto l’11 dicembre del 1980. Ammazzato perché era un amministratore pericoloso, si era macchiato di una colpa gravissima: era una persona e un politico onesto. Ucciderlo era necessario, impellente, strategico per educare gli altri amministratori. La ricostruzione del post-terremoto era ed è stato un grande affare. O, ancora, l’efferato delitto di Simonetta Lamberti, figlia di appena 10 anni del magistrato cavese Alfonso.
Questo è il primo caso di un ergastolano che ritrova la libertà anche se semi. Ne vengo a conoscenza grazie agli articoli di Rosa Coppola, una brava collega che crede ancora in questo mestiere. Credo fermamente nel carcere come luogo non di vendetta ma di recupero e di rieducazione. Però ci sono storie criminali e storie criminali. Ora la speranza è riposta, oltre che all’opposizione a un tale scellerato provvedimento, nelle mani del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, persona sensibile e attenta che saprà approfondire questa scandalosa vicenda. E’ uno strano paese il nostro. Tutto si ribalta. Sembra che ad avere il vero ergastolo perpetuo da scontare a vita siano i familiari delle vittime…
(tratto dal blog di Arnaldo Capezzuto su il Fatto Quotidiano)