Quando Ennio Flaiano cominciò a buttare giù la sceneggiatura del film I vitelloni sapeva che stava descrivendo la vita gaudente e nullafacente della gioventù della sua Pescara ma non immaginava che il racconto di quella parte dell’anima italiana si sarebbe rivelato pressoché universale. Il film di Federico Fellini, che poi sostituì Pescara con la sua Rimini, è del 1953. Oltre mezzo secolo è passato e vari mondi sono finiti. Ma loro, i vitelloni – prodotto giovanilistico del Novecento, perché la gioventù, per non dire la giovinezza, è una creazione sociale del secolo scorso -, continuano a vivere e si rinnovano nel tempo. Il loro luogo naturale è il bar. In ogni paese c’è un bar con i suoi vitelloni che si dividono in almeno tre categorie: vitellini, vitelli e vitelloni. Nella mia Sant’Agata dei Goti c’è il Blanko’s di Armando Iannotta detto Blanko che ha ereditato lo storico locale del Bar Sport. Lì dove c’era il regno di Antonio o lung’, che ha allevato generazioni di vitelloni, ora bevono e pascolano altri vitelli, quelli della generazioni dell’Happy hour e dell’Harlem shake.
Che cosa voleva dire Flaiano con la parola vitelloni? Nella Pescara del dopoguerra quella parola – vitello’ – era usata con cognizione di causa per indicare giovani sfaccendati che trascorrevano il loro tempo al bar. I vitelloni si salutavano così: “Uhe, vitello’ cum’a sti?”. Espressione che si rende quasi allo stesso modo nella nostra terra: “O vitello’ com’ stai?”. Al massimo la parola vitello’ è cambiata con “o compare” o “a bellezza” e varie altre forme idiomatiche che girano sempre intorno allo stesso saluto e concetto. Oggi la parola usata da Flaiano è scomparsa, si è naturalmente estinta, ma la cosa che indicava no. Certo, i vitelloni di oggi sono diversi, ma ogni tanto qualche buona annata c’è ancora. Sant’Agata dei Goti ha sempre avuto una buona specializzazione nel settore import-export dei vitelloni e dei gagà. In alcuni versi di Nicola Giannelli che risalgono al 1951 – quindi due anni prima dei Vitelloni – dedicati al Bar Normanno si fa riferimento proprio al gagà santagatese:
Larga mostra di liquori
E di fini novità
Ha Normanno, e luci e fiori
Con lo sfarzo di città.
Del telefono gestisce
La cabina – ognun lo sa –
E da lui si preferisce
Star raccolti noi gagà.
Ho rivisto i vitelloni santagatesi nella versione gagà del Giannelli quando ho visto la fotografia che i ragazzi festivalieri del bacio accademico hanno scattato proprio sotto i secolari platani davanti al Blanko’s che da quel momento sta diventando un luogo di culto. In quella foto siamo in cinque – perché, ahimè, ci sono anch’io -: Giovanni Desiderio, Fabrizio Iannotta, Domenico Pietrovito, Antonio Buonomo e, appunto, me medesimo di persona. Manco a farlo apposta, nel film di Fellini i vitelloni erano cinque: l’intellettuale Leopoldo, il donnaiolo Fausto, il maturo Moraldo, l’infantile Alberto e il giocatore Riccardo. Ognuno dei miei quattro compagni di fotografia ha qualcosa dei personaggi felliniani: sono grandi amatori, intellettuali, stagionati ma con un che di fanciullesco e se non sono giocatori sanno stare al gioco. Soprattutto sono frequentatori del Blanko’s e anche se, chi più chi meno, lavorano, hanno nel loro cuore un posto dove tira sempre il vento: è la nostalgia della giovinezza che li fotte. Perché il vitellone rimane vitellone anche quando non lo è più. Può crescere, può partire, può ammogliarsi ma dentro sé ha quel richiamo della foresta che si manifesta appena mette piede nei luoghi della sua gioventù. Il vitellone è come Giovanni Percolla, il protagonista del romanzo di Brancati Don Giovanni in Sicilia, che va via a Roma ma quando ritorna a Catania riprende tutte le abitudini che aveva lasciato come se non fosse mai andato via. E’ ferito a morte per sempre direbbe Raffaele La Capria che a suo modo ha descritto i vitelloni napoletani e capresi e la loro “bella giornata”. Tra queste abitudini ci sono anche “i discorsi sulle donne che davano un maggior piacere che le donne stesse”. Un tratto distintivo, questo, del vitellone di ieri, oggi e domani.
Per non tirarla per le lunghe, il Blanko’s ha messo su una bella combriccola che fa le ore piccole e già è chiamata La combriccola del Blanko’s che ricalca il titolo della canzone La combriccola del Blasco che proviene direttamente da un’altra generazione, quella che diceva Siamo solo noi e che voleva una Vita spericolata, come Steve McQueen e ora è davvero senza santi né eroi.