La fine del giornalismo classico non cancella il fine del giornalismo: l’informazione e la critica. L’attività giornalistica è indispensabile per la buona vita civile perché nell’informazione e nella critica è insito il controllo del potere. Come i polmoni hanno bisogno di ossigeno, così la democrazia liberale ha bisogno dell’informazione e della critica. Non sempre, però, il giornalismo conserva questa sua funzione. In quanto il giornalismo non è solo un’attività ma anche una carriera professionale spesso il suo fine si perde per strada. In Italia il fine del giornalismo è diventato da tempo l’Ordine dei giornalisti: una sorta di superfetazione del lavoro giornalistico che invece di creare informazione e garantire con il suo esercizio libertà di stampa costruisce un organismo burocratico che vincola lo stesso giornalismo smarrendone il fine. Nel corso del tempo, l’Ordine dei giornalisti, come tutti gli ordini professionali, ha svolto la sua utile funzione in un’Italia in crescita ed espansione: è stato un mezzo (stampa) in vista di un fine. Purtroppo, oggi l’Ordine ha perso il suo ruolo e da mezzo si è tramutato esso stesso in fine. L’Ordine è nato per essere al servizio dei giornalisti ma oggi sono i giornalisti al servizio dell’Ordine. E’ un caso molto simile a quello dei partiti politici che Ernesto Rossi chiamava “serve padrone”: nati per servire, sono serviti.
Tutti sanno che la cosa non sta più in piedi e che l’Ordine non è più in ordine. Non a caso sono gli stessi giornalisti che parlano – è accaduto anche in queste ultime elezioni di categoria – di ordine da riformare o riordinare. Ma che cosa significa riordinare l’Ordine? Si può realmente riformare?
Chi vuole riformare l’Ordine concentra la sua attenzione e il proprio impegno sugli aspetti previdenziali, sindacali, aziendali. Sono cose utili perché è sempre utile fare meglio il proprio lavoro, rendere più snello il servizio, fare chiarezza dove c’è poca luce. Tuttavia, si tratta pur sempre di un’opera di riordino tutta interna alla categoria che non mette mai in discussione il principio che trasforma il giornalismo in corporazione. Questo principio stabilisce che per praticare il giornalismo è necessario essere iscritti all’Ordine che ha due albi: pubblicisti e professionisti. Soltanto chi è iscritto all’Ordine può dirigere un giornale perché può assumere l’incarico di “direttore responsabile”. Sebbene, dunque, l’Ordine si basi sulla libertà di espressione garantita dalla Costituzione, è l’Ordine a regolamentare la professione ed a rendere praticabile concretamente un diritto costituzionale che non avrebbe bisogno di nulla più per essere esercitato. Sono, purtroppo, gli stessi giornalisti a non toccare questo tasto da cui dipende non solo la comprensione di cosa sia l’Ordine ma anche e soprattutto l’esercizio della libertà di espressione e stampa.
Naturalmente, l’Ordine ribatte che la sua esistenza è necessaria per tutelare i giornalisti. In realtà, è vero il contrario: è l’esistenza dei giornalisti che tutela l’Ordine. Infatti, la condizione necessaria per accedere all’Ordine è la stipula di un contratto con un giornale in cui facendo il praticantato si matura, dopo 18 mesi, il diritto a sostenere l’esame per essere iscritti all’albo dei professionisti. Dunque, la cosa fondamentale non è l’iscrizione, che è secondaria, ma il contratto che è primario. L’esame, pomposamente definito di Stato, è un controsenso perché verifica se si sa fare ciò che già si sta facendo o si è fatto. Il giornalismo, come quasi tutte le cose della vita e del lavoro, non si impara con la teoria ma con la pratica. Negli ultimi venti anni, però, questa sana regola è stata sovvertita con la diffusione delle scuole di giornalismo che con i loro corsi permettono di sostenere l’esame conseguendo così il titolo di giornalista regolarmente iscritto all’Ordine. E’ la stessa logica del diploma scolastico o della laurea accademica che privilegia il titolo rispetto allo studio e alla ricerca svalutando così i titoli che diventano “pezzi di carta”. Nel caso del giornalismo è ancora più evidente dal momento che è il lavoro che permette l’iscrizione all’Ordine e non è l’iscrizione all’Ordine che consente di avere un lavoro. Capovolgendo l’ordine dei fattori, questa volta il prodotto cambia: nel primo caso si hanno giornalisti, nel secondo disoccupati.
Dunque, come si vede, riformare l’Ordine significa toccare la carne viva del lavoro, della libertà, della responsabilità, mentre gli aspetti della previdenza e del sindacato, pur importanti, sono secondari, tant’è vero che possono esistere anche senza l’ordine professionale. Piuttosto che di una riforma dell’Ordine bisognerebbe concentrare l’attenzione su cosa sia l’attività giornalistica che non è fatta solo nei giornali a stampa (regolamentati professionalmente dall’Ordine) ma anche e ormai soprattutto da un mondo telematico che rappresenta al contempo la morte e la rinascita del giornalismo.