Marcello Staglieno era un signore nato. Non solo perché discendeva da una aristocratica famiglia genovese – lo zio, altro Marcello Staglieno, fu un ottimo storico della Liguria – ma soprattutto perché la sua signorilità era per lui un abito morale. Lo incontrai un paio di volte, a Roma, e fu sempre molto gentile e ben disposto nei miei confronti. Percepivo in lui la volontà di continuare un’opera culturale e nazionale di cui egli stesso si sentiva testimone: il liberalismo conservatore. La sua morte mi ha rattristato in una giornata di maggio senza rose.
Marcello Staglieno fu al fianco di Indro Montanelli quando il grande toscano lasciò il Corriere della Sera e fondò il Giornale. A Staglieno furono affidate le pagine della cultura. E giornalista colto Staglieno lo era per davvero. L’ultima volta che ci incontrammo volle sapere cosa stessi leggendo perché sapeva che i miei interessi non si fermavano alla cronaca politica. Gli dovetti dire qualcosa a proposito di Heidegger e lui prese la palla al balzo ed espresse qualche giudizio su Essere e tempo: “In fondo, quella “e” congiunzione del titolo potrebbe anche essere accentata perché per Heidegger l’essere è il tempo”. Staglieno aveva una vasta e profonda cultura ma non la esibiva, semmai la riversava nella sua scrittura che era fatta più di cose che di aggettivi, solida e asciutta mai verbosa. Nella sua bella carriera giornalistica ha intervistato grandi uomini e scrittori, tra questi anche Ernst Junger.
Quando divenne direttore del Secolo d’Italia, e fu nel 1998, io lavoravo ancora a Benevento e inviavo articoli politici e culturali, sempre in massima libertà secondo il buon giornalismo di Gennaro Malgieri che mi avviò alla collaborazione con quel giornale. Lui, appena insediatosi a via della Scrofa, mi chiamò al telefono, nonostante io fossi un perfetto sconosciuto. Mi disse di seguirmi da tempo e mi fece una proposta: “Siccome voglio mettere in prima pagina più articoli, cosa ne dici se ogni tanto ti chiamo e ti propongo un pezzo? Lo scriveresti così, sul tamburo”. Iniziò così una bella collaborazione, che durò circa due anni, e una simpatica amicizia.
Lo andai a trovare a Roma. Passai dalla redazione del Secolo che non è stata mai bellissima ma in quella giornata mi sembrò anche più brutta del solito. Staglieno non aveva una stanza sua. Lo trovai in un angolo, quasi all’ingresso della redazione, dietro una piccola scrivania ricolma di giornali. Mi fece accomodare e volle che gli parlassi di me, delle mie aspettative e aspirazioni. Lui aggrottò un po’ le ciglia, si avvicinò di più a me, si guardò intorno come per controllare il via vai redazionale e mi fece: “Se vado a dirigere Il Tempo, tu verresti con me?”. Naturalmente, gli dissi sì ma il destino non ha voluto. Lui diresse il Secolo fino alla fine del secolo e, forse anche con la morte di Montanelli, decise quasi di ritirarsi per dedicarsi ai libri.
La prima biografia di Montanelli si deve proprio a lui che si sentiva, giustamente, legato al grande giornalista come ad un maestro: fu pubblicata da Mondadori con il titolo Montanelli, novant’anni controcorrente. Il rapporto tra Montanelli e il suo allievo è durato fino alla fine, così l’ultima intervista di Montanelli, quella in cui il giornalista di Fucecchio non intervista ma è intervistato, la si deve proprio a Staglieno che poi la pubblicò per Le Lettere con il titolo: Montanelli, le passioni di un anarco-conservatore. Anche Staglieno era un po’ anarchico e un po’ conservatore, come lo furono Longanesi e Prezzolini, come lo sono, in fondo in fondo, un po’ tutti i liberali. Con la morte di Marcello Staglieno, forse, questa tradizione finisce per sempre. Sono stato fortunato ad incontrarlo.