Ha impersonato il Male. Ora che non c’è più ne parleranno bene. L’Italia è fatta così, anzi, gli italiani son fatti così, e lui conosceva bene sia l’una sia gli altri. Gli italiani parlano male dei vivi e bene dei morti. Sono grandi estimatori della fortuna postuma. Ma Giulio Andreotti di fortuna in vita ne ha avuta tanta: tanto potere, tanta fortuna. Ma anche tanti nemici. Ora la sua fortuna in morte sarà anche più grande, di molto più grande, rispetto alla sua fortuna e sfortuna in vita. Ha lasciato tante cose scritte, ma avrà lasciato senz’altro anche tante cose inedite. Il suo archivio è famoso ma ignoto. Fino quando ha potuto, Andreotti ha scritto, annotato, preso appunti. E tutto ha conservato e archiviato. Ora che non c’è più, chissà cosa uscirà da quell’archivio.
E’ famosa di Andreotti la serie di scritti e ritratti Visti da vicino. Ho visto da vicino il “divo Giulio” una sola volta. Alla sede della stampa estera a Roma, doveva essere il 2005. Lui era già da molto tempo un sopravvissuto. Un sopravvissuto a tutto: alla politica, alla storia, alla repubblica, alla democrazia cristiana, alla mafia, ai papi. A se stesso. Talmente sopravvissuto alla sua epoca che di Andreotti sono già state scritte serie biografie. “Non mi piacciono le biografie da vivo – diceva -. Però capisco che ci si occupi della mia vita. In fondo, in un certo senso io sono postumo di me stesso. Così, forse, quando ci incontrammo lui era davvero “postumo di se stesso”.
Presentavamo, proprio io e lui, il libro di Marcello Staglieno sul Quirinale al tempo in cui il settennato del presidente Ciampi era ormai entrato abbondantemente nel “semestre bianco”. Già allora si parlava di un reincarico al presidente uscente ma Andreotti si mostrò scettico. Chissà cosa avrà pensato ora della seconda e consecutiva elezione di Giorgio Napolitano, solo di qualche anno più “giovane” di lui.
Lo avevo alla mia destra. Curvo. Con quella gobba e la sua sagoma che tante volte avevo visto in televisione o nelle fotografie o nelle imitazioni di repertorio di Noschese e in quelle più recenti, eppur già datate, di Montesano; una figura che incuteva un timore ma che ora, nella vecchiezza, generava solo tenerezza. Ricordo bene che Andreotti parlò del libro di Staglieno con cura, con precisione, senza lasciarsi andare a questo o quell’aneddoto, alla nota di colore come avrebbe potuto fare attingendo alla sua esperienza e alla memoria; ne parlò prendendo in considerazione l’opera in se stessa, con rispetto per il lavoro del giornalista, e senza farne pretesto per parlare d’altro o dell’attualità, come si usa fare purtroppo oggi. Belzebù si limitava a fare un normalissimo lavoro di recensione. Questa sua normalità contrastava in me con l’idea dell’Andreotti uomo di potere. Perché, cosa è stato Andreotti se non l’idea stessa del potere? Il potere fatto persona. Ora il potere fatto persona era accanto a me ma del potere c’era più l’ombra che la luce, la debolezza umana più che la forza storica. Il potere si limitava a prendere appunti.
Però, prima di incontrarlo alla sede della stampa estera, ero entrato in contatto con Andreotti per un’intervista. Con il mio amico e collega Fabrizio d’Esposito avevamo rinvenuto alcuni scritti giovanili di Giulio Andreotti ai tempi del fascismo. Scritti, secondo noi, un po’ compromettenti perché parlavano della delicata e spinosa questione della razza. Lo intervistammo per poi scrivere il servizio per conto della rivista Palomar. Andreotti non pensò neanche per un attimo di sottrarsi alle domande. Chiese solo di poterle avere per iscritto e di poter rispondere allo stesso modo. Perché mai Belzebù si sarebbe dovuto preoccupare di rispondere alle nostre domande sul suo passato così lontano e remoto? Ora, c’è da giurarci, quel passato prima della nascita e dopo la nascita della repubblica verrà ripreso, rievocato e reinterpretato. Perché Giulio Andreotti è stato come pochi altri la repubblica italiana. Nel bene nel male.