Citando me stesso non posso che dire che c’è poco da fare, il calcio ha a che fare con la vita. Io so una sola cosa: che sono un centrocampista. Tutto il resto è roba di seconda mano. A volte mi prende una gran voglia di tirare la palla in tribuna e odiare tutti. Ma sono attimi che attraversano ognuno di noi. Perché ognuno di noi, come mi diceva quel centromediano di Vittoria Foa, si porta dentro il male. La vita più o meno civile consiste proprio nel saper controllare il male che alberga nel cuore nello stesso punto del bene. La lotta tra il bene e il male è incessante. Quando cessa vuol dire che siamo morti. Per ora sono ancora qui. In partita. Il male lo controllo e nego come controllo la palla che rimetto sempre in gioco. C’è poco da fare, sono un centrocampista in tutto: nella testa, nel cuore e nei piedi. La palla in tribuna non la metto mai. A rischio di perderla, non la butto mai. La rimetto sempre in gioco. Il mio posto in campo – nel mondo – è questo. Rimettere la palla in gioco.
Lo farò anche il 26 aprile, alle 18, al Convitto Nazionale in piazza Roma – una piazza ideale per giocare – a Benevento. Dopo Amerigo Ciervo che ci ha condotto nella Terra del rimorso di Ernesto de Martino e dopo Nicola Sguera che ha pedalato con la bicicletta di Ivan Illich, dopo la nostalgia di Amerigo che nei sogni insegue ancora Diegoarmando e l’utopia di Nicola che invoca la magia di HH per re-incantare il mondo, tocca a me. Non avrò con me né de Martino né Illich ma solo Massimo Palanca che segnava dal calcio d’angolo e Vladimir Dimitrijevic che amava dire, come recita il titolo del suo libro per Adelphi, che la vita è un pallone rotondo. Il resto, cioè la partita, toccherà come al solito farla lì per lì, momento per momento, invenzione dopo invenzione, contrasto dopo contrasto perché il gioco ha questo di straordinario: non si può giocare prima di giocare né dopo, né si può giocare su comando ma solo giocando. E’ proprio come dice Hegel della filosofia: non c’è altro modo che farla, come non c’è altro modo per nuotare che tuffarti in acqua (la prima volta meglio a riva in alto mare). Tre saranno gli incontri o le partite che hanno come titolo: Elementi di filosofia del calcio. La prima partita è, come detto, il 26 aprile alle 18 e ha come argomento: “Il filosofo è un giocatore”. La partita di ritorno è prevista per il 10 maggio, stessa ora, e avrà come tema: “Il pallone è anti-totalitario”. Lo spareggio è previsto per il 7 giugno, ancora alle 18, e avrà come argomento: “L’essere è gioco”.
Una volta Gianni Rivera mi ha detto: “Brera, come si sa, mi chiamava l’abatino ma non c’è lavoro più faticoso del centrocampista”. Proprio così, il centrocampista fatica il doppio dei suoi compagni di squadra perché attraverso i suoi piedi passa la costruzione del gioco che deve perennemente passare, come insegna il numero 10 più grande di sempre – Platone -, dall’ombra alla luce. Il centrocampista è il giocatore di cui non si può fare a meno. Un po’ come il portiere – l’Uno – senza il quale non si può giocare: tutto viene dall’Uno e tutto vi deve ritornare. Ma già questo è uno schema di gioco neoplatonico che invece il gioco della partita mette in questione. Il gioco, che non è posseduto da nessun giocatore in modo totale – nonostante l’immensità della Grande Olanda e di Johan Cruijff – è ciò che istituisce la partita dandole la possibilità di essere. Proprio al centrocampista spetta la fatica immane di provare a dare corpo e anima al gioco. Lo si può anche espellere, come Zidane, ma qualcuno dovrà pur fare il lavoro del centrocampista, anche se non tutti sono nati per farlo e non tutti sono Zinédine Zidane. In campo si potrà fare a meno dell’ala destra, che soffre maledettamente la solitudine, come mi ricordano le belle poesie del mio amico Fernando Acitelli, oppure si potrà togliere il centravanti che è quell’animale da area di rigore che si è estinto o, secondo uno dei maggiori allenatori dell’Occidente, Oswald Spengler, tramontato ma non si potrà fare a meno del centrocampista perché c’è sempre bisogno di chi mette la palla in gioco e crea gioco.
Il 26 aprile ci saranno anche due partecipazioni straordinarie: una di Franz Beckenbauer e una di Gianluca Vialli. Il primo verrà insieme con Martin Heidegger che era un suo fan sfegatato, altro che Hitler, mentre l’ex centravanti della Samp mi farà l’onore di parlare di un mio libro ora rifuso in Il divino pallone che sarà un po’ l’essere e il tempo delle tre partite. Il filo conduttore del mio lavoro di centrocampista è la traducibilità del calcio in filosofia e della filosofia in calcio o, se volete, del calcio in vita e della vita in calcio. Le regole del calcio sono le medesime della vita: controllo e abbandono. Per giocare a calcio bisogna necessariamente saper controllare la palla. Cruijff lo dice benissimo: “Il calcio è due cose: saper passare il pallone e saper controllare il passaggio che fanno a te”. Il controllo non è il fine del gioco. La palla, una volta controllata, va abbandonata ossia giocata. Ecco perché la palla è per sua natura anti-totalitaria. La vita ha le stesse regole del calcio: controllo e abbandono. Va controllata altrimenti non si può vivere con gli altri, ma il controllo non può essere totale e fine a se stesso, altrimenti staremmo bene solo in caserma o in ospedale. Dopo il controllo c’è bisogno dell’abbandono. Ecco perché la vita, come il calcio, è anti-totalitaria. Il centrocampista mette perennemente la palla in gioco perché, secondo Socrate che giocò da libero perfino in galera, è l’unico modo per vivere un’esistenza degna di essere vissuta.
Bello, veramente bello e profondo