Visse un rapido ed effimero momento di gloria. Quel gol all’Inter, che di per se fu un gesto tecnico pregevole ma isolato, ebbe nella carriera di Carmelo Imbriani la stigmate dell’eterno, dell’irripetibile.
Un ragazzo della provincia di Benevento fece espodere uno stadio tra i più imponenti al mondo e colmo fino all’estremo. Potrebbe bastare questa fotografia per appagare una carriera e per molti versi è stato così. Di esempi se ne potrebbero citare tanti. Campioni per un giorno, dal boxeur Coggi che strappò il titolo mondiale al nostro Oliva e del quale se ne persero le tracce sin da subito, all’intera Argentina mondiale del 1986, fatto salvo Lui, dei cui componenti poco o nulla ci sovviene, dalla sciatrice Magoni, olimpionica dello sci a Sarajevo nel 1984 che vinse una sola gara, quella della vita, a i ciclisti gregari in fuga, non dopati, che inventano una giornata da incorniciare e magari vincono sul Tourmalet o all’Alpe d’Huez e alla tappa successiva terminano a un’ora dal primo.
Tutto questo per dire che è di questi atleti che sgobbano, faticano e a volte arrivano che si pasce l’immaginario collettivo dello sport. Troppo facile vincere sette tour e poi sapere che sono vittorie taroccate, molto più difficile assaporare l’ebbrezza del successo e non rimanerne abbacinati o peggio vittime inconsapevoli.
Di questa categoria faceva parte Carmelo, ragazzo sfortunato, che dopo quella brevissima stagione seppe “tornare nei ranghi” e proseguire con dignità e onore la sua carriera. Dignità e onore che ha trasmesso agli altri, ai ragazzi che ha allenato nell’esiguo spazio della sua vita. Dignità e onore, armi con le quali ha perso la sua battaglia terrena ed ha vinto quella del riscatto nel momento in cui il lacerato sistema calcistico nazionale ha saputo coagularsi tutto nel caldo abbraccio al suo campione in disgrazia.
Se ne va un campione e se ne va un ragazzo di 37 anni. Con discrezione, quasi scusandosi del disturbo. Dignità e onore fino all’ultimo.