Molte ipotesi sono state fatte nel tentativo di spiegare la storica decisione di Benedetto XVI di rinunciare – dopo quasi otto anni di pontificato – a guidare la Chiesa «per il bene della Chiesa». Tutte le congetture, però, si infrangono sulle parole chiare e veritiere del Pontefice che «davanti a Dio» è pervenuto alla «certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Entrare nei segreti di una coscienza è sempre quanto mai difficile e arduo se non impossibile – gli spiriti per loro natura, diceva un grande filosofo, sono impenetrabili – ma in questo caso sembra anche superfluo. Benedetto XVI si è mostrato nudo al mondo, come nude sono la povertà e la verità. Allora, piuttosto che trovare una leva su cui sollevare il pontificato di Joseph Ratzinger nell’illusione di individuare i retroscena delle “dimissioni”, è bene provare a fornire un’interpretazione della sua testimonianza di fede e pensiero.
Massimo Cacciari ha insistito su un concetto: la difficoltà per il papa tedesco, interlocutore di filosofi e teologi, di comunicare e tradurre la fede in un mondo ormai in larga parte diverso dal suo e dalla tradizione. Giuliano Ferrara, sia pure con differenze, ha espresso una preoccupazione simile riferita al nuovo Papa che avrà bisogno di recuperare parole importanti come peccato, polvere, limite, condizione umana. A ben guardare non solo gli anni del pontificato, ma anche quelli precedenti – che in larga parte coincidono con il grande e lungo pontificato di Karol Wojtyla – sono caratterizzati, nella storia del cardinale Ratzinger prima e di papa Benedetto poi, dalla testimonianza di fede nei confronti di due nemici: il comunismo e il relativismo. Nei confronti del primo, la Chiesa ha vinto come ha vinto nei confronti delle altre violenze e dell’altro totalitarismo del Novecento, ma nei confronti del relativismo culturale oggi la Chiesa fa fatica a lottare e sembra destinata a resistere in posizione di “testimonianza”.
Benedetto XVI – se guardiamo al di là degli scandali degli ultimi tempi che hanno scosso il Vaticano – ha impegnato le sue energie proprio nel tentativo di arginare il relativismo culturale. Per certi versi la sua posizione è paragonabile a quella della Chiesa ai tempi di Voltaire e del giurisdizionalismo. Ma opporsi al relativismo culturale non è facile perché è un avversario ambiguo o “doppio”. Il relativismo è la religione del nostro tempo. Avversarla sul piano teoretico non è difficile perché è “debole”. Siamo tutti relativisti perché a uno piace il caffè e a un altro il the, a uno il mare e a un altro la montagna, ma il palato e le vacanze non riguardano fatti essenziali della vita per i quali, invece, è bene far ricorso alla verità e ai valori che sono plurali ma non infiniti né relativi. Nell’ambito del pluralismo e del dialogo la Chiesa afferma il proprio valore di fede nella vita cristiana. Ma il relativismo sconfitto sul piano teorico ricompare su quello pratico in cui la verità – anche e soprattutto quella cattolica – è vissuta in prima persona dai singoli che sono figli del loro tempo. Il relativismo pur messo in chiaro sul piano teorico ricompare su quello etico-politico perché di fatto “apre” lo spazio per la libertà di scelta in cui ogni coscienza risponde in proprio. La stessa libertà alla quale ha fatto appello Benedetto XVI per “uscire dal mondo” che non sente ormai più suo.
(tratto da Liberal)
Quello che non ha capito Ratzinger è che la chiesa cattolica è durata 2000 anni proprio per il suo relativismo culturale, che l’ha portata sempre ad adeguarsi gradualmente all’evolvere sociale e che si è manifestato fin agli inizi. Vedasi, ad esempio, contrapposizione tra Pietro e Paolo sulla conversione dei Gentili.
Mario Fragnito