Ieri qualcuno mi ha detto: “Tu scrivi poesie?”. Mi sono schermito e schernito: “Macché, come ti viene in mente? Non sono cretino”. L’idea di scrivere poesie è – diciamo la verità – un po’ da scemi. Poeti siamo un po’ tutti ma dopo una certa età, quindici anni va, solo due tipi di uomini, diceva Croce, scrivono poesie: i poeti e i cretini. La battuta è caustica ma nessuno si offenda. E’ vero un po’ di poesia e di poesiaccia in questo mondo non fa male (ma non fa neanche bene, è un po’ come l’acqua di rosa). L’altra notte, però, è morta una grande poetessa: Giovanna Bemporad. La poetessa che traduceva Omero e Virgilio, Goethe e Novalis e recitava per la bella Italia i suoi puri endecasillabi.
Giovanna Bemporad mi voleva bene. E io ricambiavo. La conobbi nella mia Sant’Agata dei Goti e l’ascoltai recitare, con la sua voce così delicata, il ritorno di Ulisse. Ne scrissi. Fu così gentile da cercarmi e telefonarmi. Mi invitò ad andare a trovarla a Roma nella sua casa all’Eur. Cosa che feci più volte e con emozione. Perché Giovanna Bemporad non viveva di giorno ma di notte. Con il calare delle ombre – o delle luci – iniziava il suo lavoro di traduttrice e di creazione. Le sue traduzioni sono altrettante creazioni poetiche. Per conversare con lei era necessario farle visita di notte. La sua casa era immersa nel buio, con luci calde. Anche i dialoghi al telefono avvenivano a notte fonda. Quando chiamava, nel cuore della notte, parlava con questa sua vocina esile che, in verità, a quell’ora, con il buio, un po’ ti faceva battere più forte il cuore: sembrava una voce dall’Aldilà. Ma dopo un po’ ci si abituava. Lei, poi, non si scomponeva e spiegava questa sua abitudine di vivere e studiare di notte e riposare di giorno come una cosa normale, scontata.
Giovanna Bemporad pubblicò nel 1948 la sua raccolta di poesie: Esercizi. La poesia di Esercizi è quella che si definisce “poesia pura” o simbolista. Il lirismo dei suoi versi è palpabile. Quello del 1948 fu l’unico suo libro di poesie al quale lavorò, non senza devozione e ossessione, fino all’ultimo tempo della sua vita, quel tempo “contro cui non c’è riparo”. La poesia per Giovanna Bemporad era un modo di vedere il mondo e di vivere la vita. La sua amicizia con Pasolini e con Sbarbaro, il suo incontro con Ungaretti – che fu anche testimone delle sue nozze con Giulio Cesare Orlando – ne sono una testimonianza anche biografica. Ma la poesia per la poetessa di Ulisse voleva essere vita fatta poesia, il che non è tanto impossibile, quanto pericoloso (soprattutto se non si è poeti). Ma la notte della Bemporand era destinata a sfociare nella luce. La sua vita notturna non era una bizzarria ma la sua assenza dal mondo, forse la sua uscita dal mondo, per dirla con un’espressione cara a Elémire Zolla, la sua presa di distanza dalla contemporaneità. Per rifugiarsi nel mondo della poesia, a cominciare dalla Grecia del mondo omerico da cui, proprio come Ulisse, tutti veniamo. L’uscita dal mondo, in fondo, era un modo per rientrarci meglio.
Una delle ultime cose che pubblicò, che mi fece avere in anteprima, ancora in bozze, fu il suo carteggio con Camillo Sbarbaro. Fu lei stessa ad annunciarmelo al telefono con quella sua voce che ora mi par di risentire se leggo i versi delle sue poesie.