La vita di Sandro Mazzola non poteva non essere segnata dalla morte del padre Valentino. Da ragazzo, ogni volta che entrava in campo, Sandro era sì il figlio del grande Valentino, ma proprio per questo doveva dimostrare di essere lì non perché era il figlio di Mazzola ma perché sapeva giocare a calcio. La sua sarebbe stata – e di fatto è stata – una vita da Mazzola. Il destino, in un modo o nell’altro, era già segnato: la vita e la morte avevano già scelto per lui. Sandro Mazzola è stato all’altezza del suo destino e di suo padre, come giocatore, scoperto giovanissimo da Giuseppe Meazza, e come uomo. La “vita da Mazzola” la racconta lui stesso ora nell’autobiografia Ho scelto di stare davanti alla porta (con Marco Civoli) pubblicata da Limina. Una nuova rivelazione, perché la prosa asciutta di Mazzola sa di verità e di vita. Inizia così: «Mazzola Alessandro, nato a Torino, 8 novembre 1942. Questo è scritto in tutti i miei documenti, ma io non sono nato in quell’anno né in quel giorno, sono nato un giorno di maggio del 1949. Mio padre era Valentino Mazzola, capitano della squadra di calcio del Torino, la più forte dell’epoca, con quattro campionati di fila vinti. Mentre si accingeva a vincere il quinto campionato, al ritorno da un’amichevole a Lisbona, l’aereo in cui viaggiava si schianta, in fase di atterraggio, contro la Basilica di Superga, non lasciando alcun superstite. Muore per sempre il Grande Torino».
Mio padre – non il padre di Mazzola, ma il mio – era milanista, teneva per Rivera e mi raccontava la sua versione dei fatti della sconfitta dell’Italia nella finale di Città del Messico contro il Brasile di Pelè e Rivelino: «Quel cretino di Valcareggi non fece giocare Rivera e lo fece entrare solo negli ultimi minuti quando, ormai, non c’era più niente da fare». Ma ogni volta che saltava fuori la storia della staffetta tra Mazzola e Rivera, mio padre citava Sandro Mazzola con grande rispetto e ricordava la tragedia di Superga e la scomparsa del Grande Torino come un dramma nazionale ed europeo per la fine di una delle “squadre più grandi di tutti i tempi”. Ben presto il Grande Torino è diventato qualcosa di più di una squadra di calcio gloriosa e sfortunata: è diventato un mito che, posto alla base della seconda metà del Novecento come una roccia che tiene in piedi una chiesa, fonda il calcio moderno. In quel giorno di maggio del 1949, con la fine di Valentino Mazzola e dei suoi compagni di squadra, “nasce” Sandro Mazzola. Come a dire che al di là del mito ci sono le esistenze concrete: «Io vivevo con mio padre da quando i miei genitori alcuni anni prima si erano separati, mentre mio fratello Ferruccio, di tre anni più giovane, stava con mia madre a Cassano d’Adda, un paesino in provincia di Milano. Non ricordo che quel giorno qualcuno mi abbia detto cosa era successo. Capii solo che qualcosa di grave doveva essere di certo accaduto. Ancora oggi, non riesco a ricordare nessuno che mi abbia detto che il mio papà non c’era più. Molte persone in seguito me ne hanno parlato, ma dopo troppo tempo. Allora, avevo bisogno di sapere chi era mio padre e perché non l’avrei più rivisto».
Le pagine iniziali dell’autobiografia di Mazzola sono le più belle, forse perché sembra che ci sia già tutto: la vita, la morte, il gioco, il sorriso, la smorfia, la gioia, il dolore, il papà, il bambino. Ancora oggi a guardarlo, Sandro Mazzola ha qualcosa di quel bambino che Valentino Mazzola portava con sé per la mano sui campi di calcio e lo faceva sgambettare con il pallone tra i piedi. Scrivendo l’autobiografia Mazzola ha riannodato «i fili di un’infanzia triste» fino a tirare via dall’oblio le immagini e le ombre della sua esistenza più lontana che credeva d’aver cancellato per sempre con l’uscita dal campo di gioco e della vita di papà Valentino: «L’unica memoria era l’immagine di un uomo che io vedevo molto alto, e che solo più tardi scoprii non esserlo, la cui mano, enorme per me bambino, stringeva la mia mentre gli camminavo a fianco, orgoglioso degli sguardi della gente e felice di sentirmi protetto. Poi un grande vuoto, fino a una sera in cui tante persone entrano ed escono in continuazione da casa con le lacrime agli occhi, tutti con un pensiero gentile e una carezza per me. Il resto è solo buio. È così che comincia la mia vita, e i miei ricordi, in un giorno qualsiasi d’autunno del ’49, in un vecchio mulino vicino a Torino, dove la donna che stava con mio padre mi nascose per tenermi con sé».
È facile dire che uno il pallone ce l’ha nel sangue. La verità è che il pallone lo devi avere tra i piedi e devi dimostrare sul campo di saperlo giocare. Il campo non perdona e non vuol sentir storie. Vale per tutti, anche per il figlio di Valentino Mazzola il quale, anzi, proprio perché figlio del grande Valentino, ha dovuto dimostrare qualcosa in più e non qualcosa in meno. La prima volta che giocò in serie A, naturalmente con l’Inter – una partita contro la Juventus a Torino – prima dell’inizio della partita Boniperti gli disse: «Ho giocato in Nazionale con tuo padre. Il più grande che abbia mai visto…». Certo, al giovane Mazzola faceva piacere sentirsi dire queste cose del padre, ma sapeva anche che il paragone era un’arma a doppio taglio. Quella partita, che finì 9 a 1 per la Juventus – ma Helenio Herrera schierò in campo non la squadra ufficiale ma la squadra giovanile dell’Inter per questioni arbitrali che, evidentemente, c’erano allora come oggi -, vide il giovane Mazzola segnare e fare un tunnel al grande John Charles: «Ricevo palla a metà campo da Fusari, l’altra mezzala, e mentre sto per controllarla vedo il gigante gallese Charles venire a contrastarmi. Ho un attimo di incertezza, penso che si mi arriva addosso mi sotterra e perdo la concentrazione, mentre il pallone mi batte contro la caviglia destra e si infila fra le gambe del mio avversario. Tunnel. La specialità che Sivori usava per irridere gli avversari che entravano duro. Io non volevo mancare di rispetto a un calciatore corretto come lui, mi fermo e gli chiedo scusa ma lui mi zittisce infastidito: “Siamo giocatori, succede, non chiedere scusa… gioca”. Che lezione, da un mito!».
Ecco il Real Madrid di Puskas, Gento e Di Stefano e la vittoria in Coppia dei Campioni. Ecco la nascita della Grande Inter di Angelo Moratti, di Helenio Herrera, di Suarez, Corso, Jair e di Sandro Mazzola. Al 43′ del primo tempo Mazzola trova il gol: «Non capisco più niente. Siamo in vantaggio sul grande Real». Si rientra in campo e ancora Mazzola consegna la palla a Milani che va via, supera Vicente e mette ancora la palla in rete: 2 a 0. Il Real non ci sta di certo a perdere e sarà Felo a battere Sarti: 2 a 1. Allora, «ci guardiamo tutti in faccia. Il volto di Armando Picchi è lo specchio di questa squadra: pugni chiusi lungo i fianchi, e urlacci del capitano a tutti noi. Poi un altro lampo, di quelli che da bambino avevo sognato tante volte. Vado ad attaccare Santamaria. A lui arriva una palla sporca, prova a rovesciarla ma dietro ci sono io: la stoppo con il petto, me la metto giù, faccio tre o quattro metri, mi sembra che la porta sia lontanissima. Ho davanti Vicente, colpisco d’esterno, palla sul palo e dentro: 3 a 1. Il Prater è ai miei piedi. E Jair è il primo a venirmi ad abbracciare». La partita finisce 3 a 1. Due gol di Mazzola. Lui cerca in mezzo al campo il grande Alfredo Di Stefano – da tanti considerato il più grande giocatore di tutti i tempi, ancora oggi – ma gli viene incontro Puskas che in italiano gli dice: «Bravo ragazzo, sei degno di tuo padre». Si leva la maglia, la numero 10, e vuole in cambio quella di Mazzola: «Quella maglia la conservo ancora, credo l’unica. Quella frase l’ho ancora in testa. È la prima vera consacrazione internazionale. È la prima dedica a mio padre».
Non si può parlare di Mazzola senza Rivera (né di Rivera senza Mazzola). Fa così anche Mazzola che dedica un po’ di pagine al suo amico, al suo nemico, al suo rivale, a quel giocatore che se non ci fosse Mazzola sarebbe un po’ meno Mazzola, come Coppi sarebbe un po’ meno Coppi senza Bartali e Bartali meno Bartali senza Coppi. Mazzola scrive di Rivera riconoscendone la grandezza. Rivera, in quanto capitano del Milan, era «il nemico numero uno in campo». La rivalità tra i due giocatori, due bandiere contrapposte, era nei fatti. Ma negli anni la rivalità andò scemando, «tuttavia non siamo mai stati a cena insieme, al di fuori degli impegni istituzionali». Mazzola ammette che il rapporto non è stato mai facile perché, in fondo, «ognuno ha sempre pensato di essere più bravo dell’altro» dice con una sincerità che gli fa onore Mazzola. E continua: «In quegli anni, solo Rivera conquistò il Pallone d’oro: era il 1969, dopo la vittoria ottenuta a Madrid, sull’Ajax del giovane Cruijff, in Coppa dei Campioni. Gianni aveva strameritato il riconoscimento. Per quel che mi riguardava, io ero rimasto male nel 1964. L’Inter aveva vinto Coppa Campioni e Coppa Intercontinentale e in Coppa Campioni io avevo segnato, con Puskas, più reti di tutti: 7 gol, capocannoniere di quelle edizione. Facendo una serie di considerazioni, mi ero convinto che il trofeo sarebbe andato a me e invece lo vinse uno scozzese, Denis Law, del Manchester United, seguito da Luis Suàres e da Amancio. Rivera era geniale nelle sue invenzioni, nella sua linearità. Possedeva la logica del calcio. In lui, la trasmissione pensiero-azione era più fulminea che in chiunque altro. La palla partita dal suo piede arrivava sistematicamente sul tuo».
A questo punto, per chiudere l’articolo, dovrei raccontare di Italia-Germaia 4 a 3 e della finale della Coppa Rimet, della staffetta e delle scelte contestate di Valcareggi e della Perla Nera di nome Pelé e dei passi e dei tocchi vellutati dei brasiliani che di quella grande Nazionale italiana fecero un sol boccone con un 4 a 1 che ancora brucia nonostante il 3 a 2 di dodici anni dopo in Spagna. Ma è una storia che conoscete e che potete rileggere nel libro di Mazzola. Invece, voglio raccontare di quella volta quando Ferruccio, il fratello di Sandro, lo rimproverò perché pensava di giocare a basket: una sera, stavano facendo la solita partita di calcio con i tappi di gazzosa e coca-cola, nei quali avevano infilato dei cerchi di carta dove erano disegnate le maglie di due squadre: «A un certo punto avevo segnato un gol, colpendo, col mio tappino, il tappo giallo che fungeva da pallone e mandando in rete alla destra del tappo-portiere, manovrato da mio fratello, che sbottò: “Bravo, lo vedi. Tiro ad effetto da calciatore. E tu vuoi giocare a pallone con le mani? Ma smettila! Noi siamo gente da pallone tra i piedi, cosa pensi direbbe tuo padre?”. E se ne andò a letto senza salutarmi. Rimasi sveglio a lungo a pensare se quel matto avesse ragione e conclusi che noi Mazzola non eravamo fatti per giocare a pallone con le mani, ma con i piedi. Era un destino già scritto». Una vita da Mazzola.
(tratto da Liberalquotidiano.it)