(Sanniopress) – In galera. Chi? Io. I giornalisti. Perché? Non si sa bene perché. Ma non fa niente: in galera, in galera devono andare, come urlava in una delle sue più riuscite gag Giorgio Bracardi. Il Senato, con 131 voti favorevoli, ha approvato l’emendamento della Lega che reintroduce un anno di carcere per i giornalisti che diffamano. Dunque, se sbaglio un articolo – e può succedere, si capisce che può succedere – devo andare in galera come se avessi commesso intenzionalmente un crimine violento. Invece, se un magistrato sbaglia una sentenza tutto passa in cavalleria. I magistrati possono sbagliare quanto vogliono perché per loro non vale il principio “chi sbaglia paga”. Non vale neanche per i giornalisti che se sbagliano con diffamazione pagano con detenzione. Non pagano neanche i deputati in quanto deputati se sbagliano una legge, come, ad esempio, in questo caso. Io – i giornalisti – devo andare in galera se sbaglio ad esprimere il pensiero.
Posso capire, allora, Sandro Sallusti che insiste da tempo, senza chiedere sconti, affinché i tempi si compiano e vada dritto dritto nelle patrie galere a scontare la sua pena per il reato altamente diffamatorio di “omissione di controllo” e “responsabilità oggettiva”. Il mondo deve sapere chi lo metterà in galera e per cosa in base ad una legge fascista della nostra repubblica antifascista. Il Parlamento avrebbe dovuto evitare questo sconcio ma con una serie di pasticci, incompetenze e immoralità è riuscito nell’impresa di confermare il carcere al direttore de il Giornale. Il presidente del Senato, Renato Schifani, si è detto favorevole ad “un momento di riflessione”. Le cose, però, stanno così: per ora tocca a Sallusti andare in galera – come è “capitato” anche al sannita Gianluigi Guarino – poi sotto a chi tocca.
Qualche anno fa, davanti a un giudice milanese – era una donna – rilasciai una dichiarazione spontanea per difendermi in un processo in cui ero accusato, appunto, di diffamazione. Dissi a quel giudice, che poi riconobbe la mia innocenza per un reato intanto prescritto: “Nella mia carriera giornalistica non ho mai diffamato nessuno e ogni volta che scrivo un articolo non lo faccio mai con l’intenzione di diffamare nessuno”. Però, anche se non diffamo nessuno, né voglio farlo mai – ho altre cose a cui dedicare vita e pensiero – può capitare che una critica un po’ sopra le righe, una polemica un po’ più spinta del solito, un tono un po’ più acceso possa essere scambiato per una volontà diffamante e così scatta la querela. La conseguenza qual è? L’autocensura, la dissimulazione, il camuffamento. Anche così, soprattutto così si condanna un Paese al declino: intimorendo la stampa e punendo la critica che, pur con tutti i suoi sbagli, è sempre meglio di un inesistente potere giusto ma incriticabile.