(Sanniopress) – «L’Italia è un paese di successo». La frase non è mia ma di Paolo Macry ed apre il suo ultimo libro: Unità a Mezzogiorno (Il Mulino). La si può integrare così: l’Italia è un paese di successo, nonostante tutto. Il libro di Macry, editorialista del Corriere della Sera e del Corriere del Mezzogiorno, e storico dell’età contemporanea, in fondo, si concentra proprio su questo “nonostante tutto”. A cominciare dal modo in cui l’Italia unita fu fatta e dal modo in cui i “pezzi” dell’Unità furono messi insieme per creare, appunto, uno Stato nazionale che delle sue diversità e delle sue opposizioni fece la ragione del successo. Quando l’Italia fu fatta, in Europa erano increduli e tutti credevano che il “miracolo italiano” non sarebbe durato molto. Prima del 1860 il “giardino d’Europa” era una mera espressione geografica, era divisa in cinque Stati principali ed il suo territorio era povero, ma sul finire dell’Ottocento l’Italia era già una potenza di media taglia mentre sul finire del Novecento gli italiani raggiungono il Pil pro capite dei tedeschi e degli inglesi. In Europa non c’è un altro paese che possa vantare un simile risultato. Un paese di successo, appunto.
E proprio perché la storia dell’Italia unita è un successo per tutti, per il Nord e per il Sud, per i cattolici e per i laici, e proprio perché ripercorrendo la storia dell’Italia dagli Stati pre-unitari all’Italia di oggi ci si avvede che non può valere la frase sarcastica “si stava meglio quando si stava peggio”, vale la pena interrogarsi sui “nodi fondativi” dell’unità nazionale che hanno decretato il successo italiano. Un successo fatto, naturalmente, attraverso drammi e sofferenze, ma senza questi ingredienti le pagine della storia, come diceva quel tale, restano bianche. Insomma, è bene conoscere la nostra storia, anche per capire che la crisi che stiamo vivendo ha sì la sua origine nel mondo globale, ma ha delle caratteristiche che riguardano soprattutto l’Italia e i suoi problemi storici che sono giunti ormai ad un punto di non ritorno. Come a dire che se l’origine della crisi è nel mondo, la sua soluzione per l’Italia è in Italia.
Lo Stato nazionale italiano è il frutto di un piccolo Stato – il Piemonte – e una nazione tutta da inventare. Cavour non pensava ad un’Italia unita da Nord a Sud e quando il Sud con Garibaldi e i democratici entrò in gioco dovette adattarsi. Non solo lui. Perché il Risorgimento non era fatto per il Mezzogiorno e realizzandosi proprio a Mezzogiorno fatalmente lo modificò. La diversità tra l’Italia settentrionale e l’Italia meridionale era soprattutto sociale: la prima differenza non era tanto economica quanto civile, politica, istituzionale e con una questione demaniale irrisolta che ne determinava la vita violenta. La borghesia settentrionale pensava alla rivoluzione nazionale per creare un mercato interno ed accrescersi secondo le regole del costituzionalismo europeo. L’ingresso del Mezzogiorno cambiò tutto: la borghesia agraria meridionale acquistò le terre del baronaggio e ne ereditò potere e comportamenti. Il nuovo Stato nazionale aveva al suo interno un dualismo che fin dal principio chiedeva di essere mediato. L’ostacolo che le élite liberali avevano davanti era allo stesso tempo un problema e una soluzione. Dopo la fase cruenta dei primi anni dell’Unità – la fase che sarà contrassegnata di fatto da quella che Macry chiama «la prima guerra civile italiana» – il paese costruirà il suo successo proprio sulla base di una mescolanza tra equilibri nazionali e squilibri territoriali, così pacificherà e nazionalizzerà il Mezzogiorno che diventerà addirittura il baricentro del nuovo Stato nazionale. Ecco qui in breve la storia italiana: «l’èlite di governo, che soffre di un cronico deficit di radicamento, distribuirà alle periferie – e sempre più alle periferie meridionali – quantità crescenti di risorse pubbliche, ricavandone legittimazione e consenso elettorale e così risolvendo, in parte almeno, il suo problema. A loro volta, le classi dirigenti locali – e sempre più le classi dirigenti meridionali – ne avranno gli strumenti necessari per consolidare il proprio controllo su municipi, province e infine regioni». Si può già notare qui il “problema italiano” dei nostri giorni. Non sembri strano, allora, se qui, in un pezzo che parla di storia e perfino della storia dell’Unità, si faccia cenno al governo Monti che, giunto con il fallimento della cosiddetta Seconda repubblica, non è né una parentesi né un incidente di percorso ma una sorta di appuntamento con la nostra storia nazionale o, se volete, di “pettine” in cui sono presi tutti i problemi politici e storici dell’Italia di fine Novecento che proprio la Seconda repubblica avrebbe dovuto affrontare e, invece, anche e soprattutto per la composizione dei suoi governi, non ha saputo porre a tema.
Ma se il Mezzogiorno è “un mondo a parte”, perché si unisce al Risorgimento? Perché la Sicilia vuole essere indipendente da Napoli e non aspetta altro che Garibaldi e i Mille per esplodere con tutta la sua rabbia e il ribellismo contadino che farà paura agli stessi garibaldini. E perché Napoli, a sua volta, si suicida, a cominciare dalla concessione della costituzione e delle sue libertà che di fatto non rafforzano i Borbone ma li indeboliscono ulteriormente. Quando i Mille sbarcano in Sicilia, inizia un altro Risorgimento. Il garibaldino Giuseppe Cesare Abba: «Le squadre arrivavano da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia, una diavoleria. Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistole». Si scivola nell’anarchia e la violenza politica non si distingue dalla criminalità comune. La Sicilia è “il cuore di tenebra” del regno borbonico. Durante le imprese dei Mille l’ordine pubblicò verrà travolto e lo stesso Garibaldi faticherà a venire a capo della situazione. Ha scritto Rosario Romeo: «Risse, violenze, omicidi, con strage talora di intere famiglie» colpiranno grandi e piccoli centri «mentre servizi essenziali come lo stato civile o la riscossione delle imposte verranno sospesi». Il crollo del Regno delle Due Sicilie si deve in gran parte alla ribellione della Sicilia e al suo indipendentismo. Dietro la leggenda di Garibaldi c’è la Sicilia e il suo “cuore di tenebra”. Napoli ha paura della Sicilia e sa quanto sta accadendo. Mentre in Europa si guarda alla leggenda vivente di Garibaldi. Massimo d’Azzeglio scriverà con sarcasmo: «Viviamo all’epoca dei miracoli. Nessuno più di me stima Garibaldi, ma quando s’è vinta un’armata di 60.000 uomini, conquistando un regno di 6 milioni di abitanti, colla perdita di 8 uomini, si dovrebbe pensare che c’è sotto qualche cosa di non ordinario».
Lo Stato borbonico vien giù come una mela marcia sulla scia degli avvenimenti siciliani e per gli errori madornali della sua classe dirigente. Nel libro di Macry le pagine dedicate a Napoli e alla sua “conquista” da parte di Garibaldi sono le più riuscite e godibili. Sembra di assistere ad un carnevale fuori stagione o a un ballo in maschera, ad un mondo che si capovolge, in cui i poliziotti diventano fuorilegge e i camorristi uomini delle forze dell’ordine. Sembra che si giochi a guardie e ladri ma a ruoli invertiti. Il ministro dell’Interno, nominato da Francesco II cercando di salvare il salvabile, è il liberale Liborio Romano che ha passato più tempo nella carceri borboniche che in libertà. L’avvocato Liborio Romano ha buoni rapporti con i camorristi e li usa per mantenere l’ordine in città ed evitare che la plebe sia usata come massa di manovra: Romano è ministro di Francesco II, ha rapporti con Cavour e con Garibaldi. Si vive in una situazione surreale in cui non si capisce chi siano gli avversari e chi siano gli alleati. Napoli è presa da Garibaldi – non da Cavour, che si vendicherà su Romano lasciandolo fuori da ogni incarico di governo – senza sparare un colpo. Garibaldi è una star e tutti – tutti – lo seguono, anche chi fino a qualche giorno prima era dall’altra parte. Il Mezzogiorno con i suoi agrari, artigiani, parroci, professionisti fa la sua parte sulla scena del Risorgimento e la rivoluzione si compie. Ma contro chi? Non è un caso che le battaglie che non si sono combattute al momento della conquista di Napoli si combatteranno dopo la realizzazione dell’Unità. Il Mezzogiorno porta in dote all’Italia unita e al Risorgimento la sua diversità sociale in cui la questione irrisolta della divisione della terra fomenta la violenza. Il brigantaggio ha varie origini e cause, ma è una realtà di fatto che i briganti sono supportati dai contadini e che i contadini vedano nel nuovo Stato soltanto la sistemazione dei proprietari o galantuomini.
È esattamente questo il “problema nazionale” del nuovissimo Stato italiano che si affaccia nell’incredulità generale in Europa. La Grande Diversità meridionale verrà “risolta” in modo originale: il ceto politico nazionale, bisognoso di legittimità, offre risorse e ne ricava consenso. A svolgere la mediazione è il ceto parlamentare. Antonio Labriola dirà che i deputati non sono altro che i «plenipotenziari dei comuni e delle provincie accreditati presso il Governo di Sua Maestà». La distribuzione delle risorse statali diventa ben presto un “carattere di sistema”. Un vero e proprio modello di governance che sarà una costante della storia d’Italia, con i suoi pregi e i suoi difetti. Il rapporto tra centro e periferia dà a tutti i suoi vantaggi: sia al centro, in termini di consenso e legittimità, si alle periferie in termine di risorse. Va bene a tutti: sia al Nord sia al Sud. Senz’altro la governance centro-periferia ha un limite: la persistenza delle disomogeneità territoriali. Ma è un difetto che non si nota nel breve periodo ed è sopportabile nella fasi di crescita nazionale che, da parte sua, genera l’idea che nel medio e lungo termine le disomogeneità territoriali – la Grande Diversità – saranno assorbite e superate.
Fin dalla sua nascita, l’Italia “funziona” sullo schema centro-periferia. Il rapporto fragile tra Stato e nazione è – per usare una frase famosa – l’autobiografia della nazione. Tutto dipende dalla distribuzione delle risorse statali, quindi chi monopolizza lo Stato riesce a imporre al meglio al resto del paese la sua forza e la sua egemonia. Nel Novecento lo schema, lungi dal tramontare diventa ancora più centrale. Lo schema funziona con i dovuti aggiornamenti: lo Stato-partito, i comunisti, la Dc, la consociazione. Lo schema funziona fino a quando l’Italia cresce. Quando l’Italia s’inceppa, lo schema non funziona più. Oppure: lo schema non funziona più perché ha raggiunto il massimo dei suoi risultati e così l’Italia s’inceppa, ancora una volta con le sue diversità territoriali e sociali. A metà anni Settanta l’Italia dei ceti medi supera l’Italia degli operai: 9,7 milioni contro 9,5 milioni. Paolo Sylos Labini scopre che gli impiegati pubblici crescono soprattutto nelle aree in deficit di sviluppo e secondo modalità artificiose. Alla ipotrofia del mercato si aggiunge, al Sud, l’ipertrofia dello Stato. La governance centro-periferia ha raggiunto il suo limite estremo e da virtù diventa vizio, da risorsa problema: non genera la crescita del Mezzogiorno e rischia di far esplodere i conti pubblici. A questo punto la “questione settentrionale”, che è sempre esistita sottotraccia, si rivela arrivando a mettere finanche in discussione l’unità nazionale che è stato il motore interno, in varie fasi della storia, della crescita dell’Italia settentrionale. Per provare a risolvere il “problema nazionale” dovremmo ricordarci che siamo, nonostante tutto, un “paese di successo”. La difficoltà consiste nel ridurre la visibilissima mano pubblica che nelle mani della partitocrazia della Prima repubblica e della casta della Seconda ha finito per schiacciare tanto lo Stato quanto la nazione.
(tratto da Liberalquotidiano.it)