di Giancristiano Desiderio
(Sanniopress) – Possiamo dire giochiamo a calcio, giochiamo a tennis. Possiamo dire gareggiamo nella corsa, nel salto in lungo, nel lancio del disco. Ciò che non possiamo dire è giochiamo al pugilato o gareggiamo sul ring. Nella boxe non si gioca, si combatte. Volano le mani, si danno pugni in faccia e nello stomaco. Non per finta. E’ tutto vero. Tanto che nel pugilato dilettantistico delle Olimpiadi, oltre ai classici guantoni, c’è anche la copertura del capo e di parte del volto. Perché i pugni son veri.
La nazionale italiana olimpionica di pugilato è composta da sette pugili, di cui cinque campani e il più noto è Clemente Russo da Marcianise. Quattro anni fa, a Pechino, vinse l’argento. Oggi non nasconde né a sé né agli altri di combattere per la medaglia d’oro. Ha detto: “Noi pugili non possiamo regalare soldi, ma sorrisi sì”. Non è una disciplina in cui si diventa ricchi, se praticata tra i dilettanti. Invece, tra i professionisti – pesi medi e pesi massimi – i soldi vengono giù a palate. Più pugni dai, più soldi prendi. Ma la boxe dei professionisti è uno sport in crisi da molto tempo. L’ultimo grande pugile è stato Cassius Clay o Muhammad Alì: dopo di lui c’è il nulla o quasi. Il pugilato mondiale si divide in una sterminata serie di associazioni e federazioni con la perdita della credibilità internazionale e seguire il susseguirsi dei campioni che si contendono il titolo mondiale diventa di fatto impossibile o inutile. Ecco perché la salvezza del pugilato è nel dilettantismo e nei Giochi. Ha ragione Clemente Russo che poco prima di salire sul ring contro l’angolano Tumba Silva dice: “Siamo orgogliosi di aver contributo a salvare questo sport: il pugilato si stava inabissando. Bello essere uno dei trascinatori della nazionale, è la cosa a cui tengo di più, a prescindere dalla medaglia d’oro”.
Ad introdurre il pugilato alle Olimpiadi furono i greci nel 688 con la XXIII Olimpiade e il primo vincitore fu Onomasto di Smirne. Gli etruschi furono grandi estimatori del pugilato e lo trasmisero ai romani che ne ebbero gran considerazione. La tecnica antica ricorda quella attuale, ma era più pericolosa. I padri del pugilato moderno trasformato in sport sono – manco a dirlo – gli inglesi. E’ l’inglese James Figg il primo pugile della storia che combatte a pagamento ed è sua la definizione di noble art of self defense da cui deriva la storia della “nobile arte”. Perché il punto sta proprio qui: la nobiltà dell’arte è nella difesa. Spesso il pugile più forte e vincente non è quello che fa più male ma quello che si difende meglio e colpisce l’avversario al momento giusto. Questo modo di combattere passerà alla storia come “principio Mendoza” dal nome del pugile inglese di origini spagnole che pur appartenendo alla categoria dei pesi medi decise di diventare campione dei massimi perché era questo l’unico titolo riconosciuto e apprezzato nel mondo della boxe che sul finire del Settecento si andava affermando. Daniele Mendoza giocherà le sue carte non sulla forza ma sulla tecnica e con lui nascerà il pugilato moderno. La “boxe danzata” di Cassius Clay, forse la boxe più bella che mai si sia vista, ne sarà la massima espressione.
Il pugilato è uno sport per poveri e per ricchi: è interclassista. E’ questo l’elemento sociale che ne farà la fortuna a cavallo tra Ottocento e Novecento. Anzi, al suo inizio la boxe è praticato dai ricchi che da sempre si affrontano in duelli armati: il pugilato è un duello senza spada. A bordo ring non ci sono solo lavoratori ma anche borghesi e aristocratici. Nel primo Novecento la boxe recluta i suoi campioni e i suoi fenomeni tra i poveracci ai quali non resta che prendere la vita a pugni. Il fenomeno italiano più noto è Primo Carnera: talmente fenomeno che quando nacque pesava 8 chili e a tre anni 30. La storia di Carnera sembra appartenere al mondo del mito più che a quello storico: a oltre ottant’anni dal suo titolo mondiale, la figura di questo gigante che divenne boxeur è ancora presente nella memoria del Paese. fu pugile, attore al cinema, fece parte della compagnia di Rascel, nel dopoguerra in America divenne campione di lotta libera. Carnera, il gigante buono, faceva tenerezza. Gianni Brera ne L’arcimatto scrive: “L’ideale uppercut di Carnera è una carezza che ci fa vergogna: non l’ha vibrato mai così dolce: l’ha appena accennato, ma per confonderci tutti. Al famoso bivio celeste, il diavolo riceverà quello stesso pugno in pieno ventre. Allora il vecchio san Pietro, per solito molto distratto, crederà di aver sentito fragorosamente sonare alla porta del paradiso e aprirà subito, ma senza doversi pentire”.
Le storie dei pugili fanno quasi tutte tenerezza. Guardate Alì. E’ il paradosso di questo che dopotutto è e resta uno sport estremo. Sul ring si vince e si perde. Ma sul ring c’è anche la morte. Fa impressione la lista dei pugili morti sul ring o a causa del combattimento. Nel giro di un secolo i morti sono qualche centinaio. Il primo campione italiano, Piero Boine, muore nel 1914, ventiquattro giorni dopo la difesa del titolo, persa contro Eugenio Pilotta. Il 10 febbraio 1933, al Madison Square Garden di New York, lo statunitense Ernie Schaff, 24 anni, va ko alla tredicesima ripresa sotto i colpi di Carnera. Trasportato in ospedale e operato al cervello, muore quattro giorni dopo. La morte sul ring ha colpito anche i dilettanti, come il greco Dimitri Livadas, morto pochi giorni dopo aver combattuto e vinto. Impressionante è anche la casistica dei pugili morti a causa di tragici incidenti: si va da Marciano a Monzòn da Marcel Cerdan a Tiberio Mitri morto il 12 febbraio 2001, travolto sui binari dal treno Roma-Civitavecchia all’altezza di Porta Maggiore, a Roma. La sua storia sembra quella del titolo del romanzo di Brera: La ballata del pugile suonato. Lui stesso l’ha raccontata nel bel libro La botta in testa dettato a uno scrittore rimasto ignoto. Quando salì sul ring per tirare contro Jake La Motta la sera del 12 luglio 1950, giorno del suo ventiquattresimo compleanno, il “Toro scatenato” ebbe l’impressione che Tiberio Mitri “non aveva troppo equilibrio: e un grande pugile è difficile che abbia poco equilibrio”. Eppure, l’incontro arrivò fino alla quindici riprese e l’italo-americano Jake La Motta vinse ai punti ma con verdetto unanime contro il pugile italiano che divenne famoso presto e uscì di scena più presto, diventando allo stesso tempo famoso e fallito. Disse: “Tutto ciò che si crea con fatica in una vita, si può distruggere in dieci secondi”. E’ la boxe.
(tratto da Liberalquotidiano.it )