di Giancristiano Desiderio
(Sanniopress) – L’autobiografia di Giuliano di Sansevero ritorna sugli scaffali delle librerie italiane (in quelle estere non ha mai smesso di esserci) grazie all’editore romano Elliot e il suo autore, Andrea Giovene dei duchi di Girasole – per me semplicemente don Andrea – ritorna a visitare la mia mente. Ho conosciuto Andrea Giovene nell’ultima parte della sua lunga e varia esistenza – come quella di Giuliano di cui racconta la vita, gli amori, le audaci imprese – quando decise di ritirarsi a Sant’Agata dei Goti nel bello e seicentesco Palazzo del Cervo che acquistò agli inizi degli anni Settanta, quando la Rizzoli aveva da poco finito di pubblicare in tre tornate e cinque volumi il suo monumentale romanzo. Che cosa sia L’autobiografia, spesso paragonata al Gattopardo, ognun potrà vedere da sé acquistando la bella edizione Elliot presentata da una introduzione di Emanuele Trevi, ma chi fosse il suo autore nessuno potrà dirvelo, forse, meglio di me.
La prima volta che ci incontrammo, lui, che già sapeva qualcosa di me attraverso mio nonno che gli era amico e gli curava faccende amministrative e (strano connubio) poetiche, mi disse: «Ah, i filosofi, battono sempre la testa contro l’Assoluto». Eppure, il suo romanzo dell’Assoluto ne è una ricerca. Negli ultimi anni, a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta – tanto nel senso del secolo quanto nel senso dell’anagrafe – don Andrea era quasi cieco e non poteva più leggere. Un guaio per chi, come lui, aveva una splendida biblioteca. Io ero i suoi occhi. Lo portavo in giro per le stanze del palazzo e le librerie della biblioteca e gli leggevo Dante, D’Annunzio, Alvaro. Ma il più delle volte mi interrompeva e continuava lui. Accadeva soprattutto per la Divina commedia della quale conosceva interi canti a memoria.
Il destino della sua opera maggiore un po’ lo tormentava ma si sforzava di non darlo a vedere. Diceva: «Il Sansevero – lo chiamava così e non L’autobiografia – dovrà vedersela da solo, non posso più aiutarlo». Un giorno gli portai in visita Giovanna Bemporad che era capitata da queste parti con la recitazione del suo Ulisse: e don Andrea per Odisseo stravedeva. I due non si conoscevano e furono contenti di scambiare qualche parola, anche se la poetessa che era solita vivere di notte e dormire di giorno tendeva un po’ troppo a parlare di «nostra sorella morte corporale» e don Andrea, anche in ragione dell’età e della sua visione dionisiaca della vita, non ne voleva sentir parlare. Allora se ne uscì dicendo: «Ma tutto questo dolore gratuito, il Padreterno non ce lo poteva risparmiare? Il dolore è insensato». La Bemporad, vestita di nero, un po’ mortificata, capì e tolse il disturbo.
Oggi del Sansevero si torna a parlare come di un capolavoro ritrovato. Oggi come ieri ritornano i paragoni con Tomasi di Lampedusa (anche se proprio don Andrea mi diceva di rifiutare l’accostamento) e i critici propongono di volta in volta le loro chiavi di lettura, cosa che fa anche Trevi nell’introdurre il romanzo. C’è una cosa, però, che né Trevi né altri sanno: don Andrea ha lasciato tra la carte della sua biblioteca uno «scartafaccio» che del romanzo vuole essere la chiave di lettura e, non a caso, s’intitola La chiave. Era conservato in un comodino inglese e potrebbe ancora essere lì. In quelle pagine è ricostruita la genesi del romanzo e sono indicati i veri nomi dei personaggi. Sì, perché i personaggi che si susseguono sulla scena delle pagine del Sansevero sono tutti veri e se alcuni, per ovvie motivazioni, sono figure di famiglia, altri sono invece uomini e donne del mondo letterario, giornalistico e politico frequentato da Andrea Giovene.
In fondo, don Andrea aveva previsto che un giorno o l’altro Giuliano Sansevero avrebbe trovato il modo di far parlare nuovamente di sé e così, per dargli una mano, un po’ a tutti, critici ed editore compreso, volle fare un piccolo scherzo. Come era nella sua natura, seria ma viva.
(tratto da Liberal)