(Sanniopress) – Per una volta vorrei essere io a scegliere il terreno del confronto con il mio amico/antagonista Giancristiano Desiderio (sperando nello stesso tempo di accendere ancora il desiderio barocco di Luigi Furno e Guido Bianchini). Ma, ancora una volta, l’oggetto del contendere sia Martin Heidegger. Non però le sue esecrabili scelte politiche dei primi anni Trenta (di cui abbiamo discusso), bensì il suo pensiero e la sua eredità. Il nome del pensatore di Meßkirch è risuonato spesso nell’ultimo anno, che ha visto un fiorire abbastanza inatteso di iniziative legate alla filosofia da valutare positivamente prima di tutto per la diversità delle proposte e dei proponenti. Giancristiano ha ribadito più volte, negli incontri pubblici, nelle sue riflessioni scritte, nei commenti su Facebook, che Heidegger ha il solo merito, condiviso con altri, di aver capito la fine della verità come «adaequatio» (rei et intellectus), e che dunque un filosofo del genere è meglio perderlo che trovarlo. Insomma, che Benevento continui ad ignorarlo, come ha fatto, tranne pochissime lodevoli eccezioni (potrei citare Giovanni Rossetti e un cultore della disciplina come Giovanni Varricchio).
Partirei da un dato sociologico-culturale. Possiamo dire che finalmente Heidegger è entrato a pieno titolo nel dibattito culturale cittadino. La cosa potrebbe far sorridere. Alla metà degli anni Ottanta si affermava, nella forma del “pensiero debole” lanciato da un celebre libro antologico di Vattimo e Rovatti (1983), l’egemonia ermeneutica che proprio nel filosofo tedesco trovava ispirazione. Nello stesso giro di anni iniziava, con il libro di Farias (1987), la furibonda polemica sul nazismo di Heidegger. Stiamo parlando, dunque, di quasi trent’anni fa… Heidegger viene sdoganato, diventa oggetto di discussione addirittura giornalistica proprio quando si coagula intorno ad un apostata dell’ermeneutica, Maurizio Ferraris, una composita schiera di filosofi “neorealisti” che vogliono superare prospettivismo e idea “debole” della “verità”. Ma Benevento ha i suoi tempi…
In questi anni è accaduto anche che una delle ultime enclave dello storicismo di matrice hegeliana e crociana, la facoltà di filosofia di Napoli, è stata colonizzata da cultori di Nietzsche ed Heidegger. Eppure, se guardo ai programmi scolastici che formano i nostri giovani nei Licei e discuto con i miei colleghi, noto ancora una profonda diffidenza, che assume una forma per certi versi grottesca, giustificata spesso dai manuali di maggior diffusione. Poiché la grandezza di Heidegger è inoppugnabile, ne si fa studiare il cosiddetto primo periodo, che coincide sostanzialmente con Essere e Tempo del 1927. Si giustifica la scelta prima di tutto perché la prima ricezione di Heidegger (dovuta a Chiodi ed Abbagnano) riguardava quel libro, perché si “normalizza” il suo pensiero, collocandolo all’interno di un movimento, l’esistenzialismo e perché, soprattutto, si evita la spinosa questione del nazismo (essendo l’opera precedente all’adesione di Heidegger al movimento). Io, invece, cerco sempre di presentare il suo pensiero integralmente, collocandolo totalmente al di fuori delle correnti del tempo (pur essendo evidenti debiti con la fenomenologia e con il pensiero di Kierkegaard, ovviamente) perché considero il “secondo Heidegger” pensatore veramente rivoluzionario e ancora tutto da comprendere. E, dunque, il senso di questo mio intervento è proprio qui: mostrare a Giancristiano i tesori ancora nascosti per molti di quel pensiero, invitare i miei colleghi a non avere remore ad incontrare la forza dirompente che si nasconde negli scritti spesso criptici che furono redatti a partire dalla metà degli anni Trenta.
Lo farò schematicamente, riservandomi nell’eventuale discussione di articolare meglio le mie affermazioni:
1) Heidegger consente di pensare in maniera radicalmente nuova la storia e il pensiero dell’Occidente, oltre che la sua funzione planetaria (trovo molto del suo pensiero, ad esempio, nei teorici della “decrescita”).
2) Heidegger consente di fondare un ecologismo radicale, e, dunque, un nuovo rapporto tra uomo e mondo. L’equivoco promosso dagli intellettuali organici ai grandi potentati tecno-economici è che la strada del futuro sia la “green economy”. È solo un inganno che serve a perpetuare per qualche decennio la scellerata distruzione del pianeta ad uso di piccoli gruppi di beneficiari. Solo ripensando alla radice (greca!) i concetti di “terra”, “dimora” (oikos), “tecnica”, come Heidegger insegna, sarà possibile una trasformazione vera.
3) Heidegger consente di rivedere il concetto stesso di “uomo” (e di umanesimo, come argomentato altrove) al di là di qualunque falsa dicotomia fra materia e spirito, perfettamente integrabile con le recenti acquisizioni delle epistemologie più avanzate (penso a Fritjof Capra).
4) Heidegger consente di ripensare il concetto di “tecnica” al di là di qualunque semplificazione “buonista”, cogliendone il cuore “filosofico”, e attraverso tale categoria ripensare tutti gli ambiti dell’esistenza umana: economia, politica, religione.
5) Heidegger è (dopo Schelling) il primo “filosofo” che vuole trascendere la filosofia, cogliendone le inevitabili secche, e additando nell’arte, soprattutto la poesia, la via maestra per accedere ad un’altra possibilità della “verità”, non più come strumento del dominio tecnoscientifico dell’uomo sul mondo (questo aspetto del suo pensiero è strettamente collegato, evidentemente, alla custodia del mondo di cui ho accennato sopra).
6) Heidegger è il primo pensatore che pone in modo radicale il problema del linguaggio della filosofia, del suo necessario ripensamento, della sua revisione… Una intuizione geniale, poi coerentemente messa in pratica in un arduo e spesso incompreso sforzo di rifondazione del linguaggio del pensiero che non fosse però violenza o deriva nichilistica (come in molte, troppe avanguardie).
7) Heidegger consente di ripensare un spiritualità libera dalle catene dei dogmi, dalla “violenza” del sacro, dalla regressione identitaria in cui le religione positive in tutto il mondo si stanno involvendo. Ancora una volta rompendo le dicotomie tradizionali e fruste (ateismo vs. fede nell’esistenza di Dio), Heidegger, coniugando in maniera geniale Hölderin e Nietzsche, illumina un mondo sì disertato dagli Dei, secondo l’annuncio della Gaia scienza, ma in cui essi, e dunque il “sacro”, potranno tornare, se gli uomini sapranno preparare loro la strada.
8) Heidegger potrebbe liberare lo studio stesso della filosofia dal suo oramai insopportabile retaggio hegeliano (secondo cui la filosofia è la sua storia, dunque essa va studiata dai milesii ad oggi…). Senza ridurla a vacuo sociologismo, a chiacchiera pseudo-colta, ma radicandola nella lettura attenta dei testi fondamentali, ma con la consapevolezza che Eraclito, vissuto due millenni e mezzo fa, possa essere più “vivo” di Benedetto Croce, per fare un esempio a caso. E che quella vita, quella forza può essere riattivata, messa in opera nel processo pedagogico, fuori dal peso di uno storicismo spesso estenuato.
Siamo di fronte (lo sto ripetendo ovunque sia possibile) ad una crisi davvero epocale: ecologica, economica, energetica, psichica… Aggiungerei, alla tetrade enucleata da Rifkin, la crisi dei linguaggi. E, dunque, abbiamo bisogno ora più che mai di un pensiero aurorale, consapevole dei rischi mortali che stiamo correndo ma anche nuzialmente aperto al nascente.
Non posso non chiudere con i versi di un poeta amico di Heidegger, il capitano partigiano René Char, che del pensatore condivide la lucida disperazione e l’albeggiante certezza di risorgere: «Vedo la speranza, vena d’un domani fluviale, declinare nel gesto delle creature che mi sono attorno. I volti che amo intristiscono tra le maglie d’un attesa che come un acido li corrode. Ah, come siamo poco aiutati e male incoraggiati! Il mare e la sua riva, quel passo visibile, sono un tutto suggellato dal nemico, giacente sul fondo dello stesso pensiero, stampo d’una materia in cui entrano, in parti eguali, il rombo della disperazione e la certezza di risorgere».
Vivo a Benevento da quattro anni. Vengo dalla periferia dell’ Impero, da Trieste, e con Pier Aldo Rovatti mi sono laureata, tanti anni fa. Con Maurizio Ferraris ho fatto l’ esame di Estetica. Una fucina di belle teste, quella facoltà, anzi quel dipartimento. Rovatti(mo) o Pier Altro, visto che il tema dell’ alterità è centrale nel suo pensiero, credo che dissentirebbe dalla tua visione. Anzi, mettiamola così. Qui Heidegger abiterebbe la distanza tra il sein e il zeit, o meglio la crepa. O meglio. Proporrebbe una sana “epochè” husserliana, una sospensione del giudizio, perchè mi pare che questo sia un problema non da poco, qui. L’ osservazione senza il giudizio. Così, a pelle.