(Sanniopress) – «Criminali! Criminali! Criminali!».
La litania saliva dal campo di rape fino a riempire il cielo. Era stato un novembre assolato, avaro di pioggia, salvo il nubifragio di due giorni prima. Gli spari lontani dei cacciatori raggiungevano qualche tordo sfortunato; un accenno di vento spingeva a valle gli ultimi fili di nebbia.
«Criminali!»
Il coltellino a falcetto fendeva l’aria prima delle cime di rapa. Curva sulle ginocchia piangeva, Filomena. Piangeva e gridava il suo dolore. Settantadue anni indecifrabili su un viso di rughe sottili. All’alba, dall’uscio, li aveva visti. E subito aveva capito. Non dormivano, non c’era il gusto del sonno sui musi dei suoi cuccioloni, ma schizzi di vomito. Gli occhi fissi e bianchi non imploravano più aiuto da ore. Col fiatone era arrivata alla cornetta: suo figlio Nino, giunto pochi minuti dopo, aveva seppellito le carcasse dei tre maremmani, dopo una telefonata alla stazione dei carabinieri. Non riuscendo a calmare la madre, se n’era ripartito verso casa, bestemmiando.
Rientrata in cucina con il raccolto, Filomena ne scelse le foglie più verdi e sode e le infilò in un sacchetto. La porta d’ingresso opponeva la solita resistenza, ma infine cedette e si lasciò chiudere. Davanti alle cucce vuote l’anziana vedova pianse a lungo; poi si diresse dall’altro lato della strada. Don Mario avrebbe di certo apprezzato il pensiero, dividendo con la sua vicina la passione per l’orto. «Voglio vedere se almeno questa volta mi ringrazierà, vecchio scorbutico» borbottava Filomena tra sé. Forse sarebbe pure riuscito a consolarla del lutto.
Il sacerdote si era ritirato a leggere Bibbia e a coltivare ortaggi da tempo. Non apprezzava i visitatori, Don Mario, e i visitatori latitavano volentieri. Ma Filomena era un’eccezione: la comune solitudine era un buon argomento di discussione, e discutendone la combattevano.
Il portoncino spalancato non la turbò: con quell’aria di primavera stonata mancava poco che si camminasse in pantaloncini. «Don Mario, sono io, buongiorno!» gridò entrando. Vecchio, scorbutico e sordo.
Le ginocchia le cedettero all’istante, appena varcato l’ingresso. Niente era più al suo posto, tutto era distrutto. Le sedie e le vecchie credenze spaccate, le stoviglie in cocci sparsi ovunque. Centinaia di libri, raccolti e catalogati con cura negli anni, erano ora una collinetta di carta straccia in un angolo del salottino. E al centro della stanza, sul grande tavolo in noce, una enorme macchia rossa, scura, si era allargata fino a gocciolare sul pavimento. Sangue. Troppo sangue.
«Gesù mio! Gesù mio! Gesù mio! Gesù mio! Gesù mio!»
Filomena si rialzò a fatica, tenendosi al pomello del portoncino. Uscì da quelle stanze senza voltarsi, come catatonica, continuando a fissare la devastazione. Continuando a fissare il sangue. Appena fuori, lanciò il sacchetto per aria e corse, trottola piccola e tonda, verso casa.
«Gesù mio! Gesù mio! Gesù mio! Gesù mio!»
Le foglie di rapa galleggiavano nel fango, mentre la nuova e atroce litania aveva ormai scalzato l’altra.
(tratto dal sito 5 capitoli – un racconto in cinque giorni)
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* Nato a Benevento nel 1984. Viveva a Cerreto Sannita. Considerava i versi l’unica sua salus. Oggi ha deciso di lasciarci. Ciao Marco! (b.n.)