di Amerigo Ciervo*
(Sanniopress) – Venerdì pomeriggio era già tutto un impazzimento di foto, di post, di frasi. Immense distese di bianco, alberi sofferenti per il peso della neve, pupazzi di neve di non pregevolissima fattura. Cachinni di studenti che già pregustavano la “grassa” (così i nostri vecchi definivano l’abbondanza) di un po’ di giorni di vacanza inaspettati. E ancora: la poesia del mio amico Nicola. E l’editoriale del mio amico Giancristiano. Addirittura Pocho, il mio gatto, raccoglieva altre ammiratrici, rimpolpando un carniere già pesante, perché immortalato mentre, sulla bianca coltre del giardino, rincorreva passeri infreddoliti alla disperata ricerca di cibo. Sarò davvero invecchiato, ma tutto questo meravigliarsi, tra il fascinoso e il sentimentale, che ho visto trasbordare dalle bacheche di FB per le nevicate in atto lo trovo vagamente infantile. Poi mi sono ricordato del 1972, quando, per una nevicata che ci tenne senza luce, riscaldamento e viveri per più di una settimana, su un ciclostilato che, giovani, diffondevamo in paese e che aveva un titolo impegnativo, solenne e complesso insieme, “Utopia”, scrissi una noticina sulla non superficiale differenza tra la neve di Moiano e quella di Cortina. La neve non mi convinceva nemmeno allora. Ero già vecchio, probabilmente.
Ma tant’è. Ho imparato, con il tempo, la difficile pratica del rispetto. E allora viva la neve. E viva questo ritorno all’infanzia. Ora, però, mi accorgo che le valutazioni virano verso più complicate esperienze e la poesia dei primi attimi va lasciando il posto a una prosa che, di ora in ora, si fa sempre più aspra. Come la neve che, ammontata sui bordi delle strade, mostra, senza ritegno, la perdita del suo biancore. E a me viene in mente Pascal e il suo concetto di divertissement.
“Nonostante tutte le sue miserie, l’uomo vuol essere felice, e vuole soltanto esser felice, e non può non voler esser tale. Ma come fare? Per riuscirci, dovrebbe rendersi immortale; siccome non lo può, ha risolto di astenersi dal pensare alla morte”. Ma “nulla è così insopportabile all’uomo come essere in un pieno riposo, senza passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazione. Egli sente allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. E subito sorgeranno, dal fondo della sua anima, il tedio, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione. Quindi “per render felice un uomo, basta distrarlo dalle sue miserie domestiche e riempire tutti i suoi pensieri della sollecitudine di ballar bene.” Il divertimento è dunque, per il filosofo francese, la peggiore scelta dell’uomo, che cerca di “devertere”, ossia di allontanarsi, distogliersi, deviare, cambiare direzione. Allontanarsi da dove? Dalla propria condizione. E, per questo, si perde in mille attività con cui s’illude e con cui crede di illudere gli altri. Poi si ritorna a pensare. E ciò, che pensavamo di aver rimosso con il biancore della neve, si ripresenta, implacabilmente, a chiederci il conto.
E, dunque, via con le pale a spazzare dai vialetti delle nostre case quella neve bellissima che s’è fatta, come direbbe Pasolini, immondezza.