(Sanniopress) – “Andiamo al Quisisana?”. “Che schifo, vacci tu al Quisisana! A parte che ho altro da fare stasera, ma poi l’altra volta che c’andammo ci siamo appallati. Se non sappiamo che cazzo fare ce ne stiamo qua a Cretarossa, ti pare?”. Quel posto entra con naturalezza a far parte dei dialoghi tra i giovani di Benevento. Dai quindici ai trent’anni, tra persone di almeno tre generazioni diverse, non c’è quasi nessuno che non sappia cosa sia il Quisisana. Anche chi non c’è mai andato di persona con gli amici, magari d’inverno in qualche sera boriosa infrasettimanale quando proprio non sai come buttarla, sa almeno di cosa si tratta e sa decidere se andarci o meno.
Il Quisisana in realtà non si chiama così, ma “Qui si sana”. Questo però lo sa soltanto chi c’è stato e l’ha visto coi propri occhi, e ha letto la scritta sbiadita sull’architrave della porta dove qualcuno ha pensato bene di mettere in chiaro, con una bomboletta spray, che i tempi sono cambiati. Al posto del “sana” c’è oggi scritto “tromba”. Qui si tromba.
Il posto non lo trovi se non sai esattamente dove sta, o se non vuoi andare in giro a scoprire la Benevento che non si vede, quella che conosci solo camminando a piedi ed evitando volutamente le strade principali, conosciute, quelle che conducono da qualche parte. Per andare al Quisisana non devi essere diretto da nessuna parte, tranne che al Quisisana. La strada è quella che dal quartiere Pacevecchia porta alla frazione Perrillo di Sant’Angelo a Cupolo, passando per Via Monteguardia e non per la strada che tutti conoscono, quella illuminata e ariosa immersa nelle campagne.
La strada per il Quisisana parte da Via Pacevecchia: è una salita ripida dentro una curva di fronte la Villa dei Papi. E’ uno dei confini tra la Benevento pubblica e la Benevento privata, tra quella che si vede e quella che nessuno vuole vedere. Se non sei diretto a casa tua o di qualcuno, in una delle tante ville e villette panoramiche costruite su quella collina beneventana, quella salita difficilmente la imboccheresti. Di notte poi, quando spesso ci vanno i ragazzi in gran segreto, chi vuoi che se ne accorga.
Fai poche decine di metri in salita, superi qualche villa, il ripetitore televisivo Rai – pochi sanno che si trova così immerso nel centro abitato – e quando ti trovi sulla destra il deposito della Gesesa sei già in pianura. E sei quasi arrivato. Ma se non sei a piedi, con gli occhi aperti per osservare ogni cosa, o se non sai esattamente dove sta il Quisisana, potresti proseguire dritto e non accorgertene. I rifiuti a terra sono un segnale che ci sei quasi. Una discarica abusiva sul ciglio della strada, con oggetti per lo più domestici, sta lì chissà da quanto tempo – tanto non se ne lamenta nessuno – ed è l’anticamera del Quisisana.
Del vialetto oscuro e minaccioso, quasi da film horror, un tempo lastricato di pietre grigie, oggi rimangono solo erbacce, terriccio umido e fangoso e qualche dorso di pietra ancora visibile. C’è appena lo spazio per entrarci con una sola auto, ma i ragazzi che ci vanno coi motorini hanno lo spazio che serve. Se ci vai in auto o su due ruote dipende da cosa ci devi fare. Se sei in moto è probabile che sei lì per drogarti o fumare qualche canna. Se ci vai in auto, allora è probabile che vuoi onorare la scritta sopra la porta del Quisisana, quella che dice che lì si tromba. E i preservativi sparsi a terra non raccontano nulla di diverso, anche se in un posto del genere bisogna avere lo stomaco per mettersi a fare l’amore.
A destra e a sinistra del vialetto ci sono alberi e piante, cresciuti spontaneamente nei decenni di abbandono di quello che un tempo era un luogo di cura. Il “Qui si sana” fu infatti un asilo, trasformato in ospedale durante la guerra e poi divenuto manicomio, prima della definitiva chiusura.
Oggi al Quisisana si tromba, ci si droga, si abbandonano rifiuti e si fa anche un’altra cosa che alimenta un “turismo” del tutto sconosciuto alla Benevento pubblica, quella che si trastulla al sole senza indagare cosa nasconde nel proprio ventre. L’edificio abbandonato è infatti avvolto dal mistero e in molti ci hanno ricamato sopra, negli anni, storie e leggende che lo rendono pelligrinaggio di quanti sono attratti dal paranormale, dall’esoterico, dal misterioso. E’ stato persino creato un gruppo su Facebook per raccogliere i racconti macabri di chi era stato dentro al Quisisana. Oggi quel gruppo è abbandonato come l’oggetto della sua attenzione. Si racconta che per tre volte lo si voleva rimettere a nuovo in tempi recenti. L’impalcatura, appena montata, fu trovata il giorno dopo crollata al suolo. Tutte e tre le volte. C’è chi scrive, in alcuni forum in cui si parla di fenomeni misteriosi, che lì dentro si nasconda qualcuno.
Probabilmente sono tutte fantasie, storie inventate nell’ozio di una città noiosa che per alcuni conserva il mistero delle streghe quale unico elemento di attrazione. Ma chi c’è stato lì dentro, chi ha oltrapassato rifiuti e pozzanghere, chi non si è lasciato intimorire dal pauroso ingresso e dalla scritta intimidatoria “Devil’s Corps” (i corpi del demonio) che campeggia sulla porta, chi è riuscito a salire anche al secondo piano attraverso quello che rimane di una vecchia scalinata, sa bene che quel posto non è vuoto.
Non sono i soffitti sventrati, che mostrano i mattoni rossi di un secolo fa, non sono le scritte di odio, sesso e insulti che imbrattano ciò che resta dei muri interni dell’edificio, non sono le siringhe e i preservativi sparsi un po’ ovunque, e neppure le macchie nere di fumo dove qualcosa è stato bruciato a dare l’impressione che il Quisisana non sia completamente abbandonato. Non sono in definitiva gli avventori occasionali dediti alla perdizione a rendere quel posto ancora vivo. C’è un’atmosfera, un’aria immobile, una sensazione di non essere soli e di essere entrati in casa di qualcuno che lascia col sospetto che i malati di mente siano ancora lì, che le loro grida strazianti riecheggino ancora, che i loro pensieri folli e confusi si agitino ancora davanti alle finestre, di fronte al panorama di tutta la città là fuori che non sa e fa finta di non sapere. E’ come se dentro il Qui si sana sia rimasta imprigionata un’ombra del male, di chi lì dentro non è riuscito a sanarsi.
Il Quisisana sovrasta Benevento. Lo si vede dalla tangenziale Est in direzione galleria Avellola. Basta alzare lo sguardo sulle colline di Pacevecchia, Monteguardia, Perrillo. A destra dell’antenna Rai c’è lui, il mostro di pietra marrone col tetto piatto e le finestre nere come la testa dei matti, come l’abbandono, come il silenzio macabro, come il male. Lo si vede da tutta la valle del Sabato, dallo stadio, dai campi coltivati, dal nuovo asse interquartiere, persino dal Viale degli Atlantici. E’ lì, è palesemente affacciato sulla città come a presagire sventure, a gettare iatture, a custodire maledizioni segrete che i beneventani ignorano. La gente non ne vuole sapere. La gente non vuole sapere.
Il 23 luglio 2011 è stata pubblicata una notizia stringatissima, unico riferimento ufficiale al Quisisana durante decenni interi: “Incendi di sterpaglie, ieri notte, nei pressi dell’edificio ‘Quisisana’, in via Monteguardia. Sul posto, gli agenti della Volante 2 ed i Vigili del Fuoco”. Punto. Le forze dell’ordine sanno cosa c’è in Via Monteguardia, conoscono il “Quisisana”, intervengono per l’incendio di alcune sterpaglie. Ma il Quisisana sta ancora lì, nessuno lo chiude, nessuno lo abbatte, nessuno lo ripulisce dall’enorme discarica abusiva che lo circonda, lungo il vialetto circolare che ne segna il perimetro. E’ la più grande discarica abusiva di Benevento per estensione, volume e qualità dei rifiuti abbandonati, dai vetri agli elettrodomestici passando per copertoni e resti di automobili. Sta lì da anni ma la gente non lo sa o fa finta di non saperlo, e chi ne è al corrente se ne frega. Forse perchè oggi quella discarica “è” il Quisisana, o almeno è gran parte della porzione di Quisisana visibile dall’esterno.
Dopo che ci sei stato, ti allontani in fretta, con la testa piena di cose e di voci. Ma resti calmo e riprendi la tua strada. Non fa paura il Quisisana, come un gigante assopito che ha perso le forze. Ma un gigante che ha ancora qualcosa da tirare fuori, qualcosa che nasconde e che non si sa come e quando verrà fuori, e con quali conseguenze. Mentre rifletti ti accorgi che sei già arrivato di nuovo a Via Pacevecchia, davanti al cancello della Villa dei Papi. Guardi l’orologio: ti ci sono voluti 5 minuti a piedi per passare il confine, per ritornare nella Benevento pubblica da dentro il ventre della Benevento privata, segreta, oscura. Solo 5 minuti. E ti domandi come diavolo sia possibile che 5 minuti siano sufficienti per nascondere un mostro.
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Bel pezzo, complimenti, lo dico da collega. Io che vivo lontano da Benevento da 35 anni, pensavo non esistesse più. Ci andavo da ragazzo, negli anni 70-80 a fare l’amore schermando i finestrini con i giornali per evitare i “rattusi”. Ma già allora era un posto che faceva paura. Pensavo che lo avessero abbattuto da tempo. E’ una vergogna che sia ancora lì in stato di abbandono…