di Amerigo Ciervo
(Sanniopress) – Non si dicono le “male parole”: l’invito – in un miscuglio di dialetto e di italiano, tipico della lingua di certa piccola borghesia che si apriva al nuovo, ai tempi del boom, – dei nostri padri mi rimbomba ancora nelle orecchie.
Certo che ne è passato di tempo da quando il povero Zatterin, dovendo raccontare, al telegiornale, la notizia della legge Merlin, quella relativa alla chiusura delle “case chiuse” (e, in quel caso, la chiusura della chiusura equivalse, in sostanza, a una vera apertura), non poté pronunciare, non dico qualcuno di quei termini tecnici (bordello, casa d’appuntamento, casino) con i quali molti maschi italiani pure avevano avuto dimestichezza per parecchi decenni, ma neppure la consistenza stessa della legge.
Ma non si dicono le “male parole”, ci ripetevano, perché si fa “brutta figura” con le persone. Rientrava, quel linguaggio che si autocontrollava, nel più generale controllo che, al pari delle antiche civiltà, risiedeva nel concetto di vergogna. “Vergogna per le cose brutte, desiderio per le cose belle” (Platone, Simposio). E una società che non si vergogna delle parole è una società senza vergogna. Senza “aiskùne”, ossia vergogna e non è latinorum, caro Giancristiano.
E’ l’urgenza consapevole che, ormai, al punto dove siamo giunti, come all’inizio della modernità, si renda necessario un ritorno al principio. “Sbreognato”, dicevano i vecchi a Moiano, fino ai sessanta. E a me, giovane, quella parola appariva già disperatamente lontana.
Probabilmente, è nella vergogna messa alla gogna che ritroviamo la vera metafora dell’Italia di oggi. E nessuno si senta escluso, perché la Storia siamo noi. Allora recuperare la serietà significa, per me, recuperare il senso del pubblicamente vergognarsi. Anche delle “male parole”. Ma ho idea che ci sarà molto da lavorare. E non basterà uscire dalla crisi.