(Sanniopress) – Non so se questo Natale beneventano sia diverso da quelli passati. Ma alle vibranti filippiche che si leggono in giro per il web, grondanti indignazione, credo possa aggiungersi qualcosa. Partiamo da un dato positivo: le voci critiche fanno bene alla salute di qualsiasi comunità. Se un cittadino (o un giornalista) si indigna perché alcuni ragazzi di notte schiamazzano e sporcano, ha ragione. Se si indigna perché avverte una discrasia tra aspirazioni e realtà, ha ragione. Se pretende da chi lo governa un impegno che produca risultati tangibili, fa benissimo. Se registra un malessere o una insoddisfazione, ha il diritto e il dovere di esprimersi. Ma vorrei ampliare lo sguardo, o almeno provarci.
Prendiamo uno dei casi più eclatanti ed emblematici: la movida sozzona. Quando si diffonde una malattia – come l’inciviltà di una parte di giovani (ma per uno che urina a mo’ di cane ce ne sono altri cento che possono dare lezioni di buona educazione) – il bravo medico deve fare due cose per debellarla: isolare il virus e monitorare i sintomi. Finora ho letto molte disamine sulla sintomatologia, ma nessun virologo ha ancora cercato di spingersi fino alla radice del male. E capisco anche il perché: è più complicato e fa male.
I fenomeni sociali – che nel caso della movida liquida definirei epifenomeni – non hanno una sola causa generatrice, ma un intero ceppo virale. Se Benevento soffre di isolamento, lentezza ed è in balia di quattro piscialletto non si potrà semplificare accusando solo chi amministra. Questi ragazzi non sono figli di nessuno, né emarginati né ribelli delle Banlieue. Nella gran parte dei casi sono figli di famiglie benestanti, invasati dal solito effimero furore distruttivo di se stessi e di tutto quello che capita a tiro. In mezzo a loro c’è la futura classe dirigente, anche se ora è solo digerente. Fra trent’anni probabilmente un defecatore diverrà assessore, un urinatore siederà alla presidenza di un’azienda pubblica, un ubriaco guiderà un sindacato o un’associazione di categoria. Scommettiamo?
La maleducazione è un sintomo, ma gli agenti patogeni sono belli tosti: il lassismo delle famiglie (principalmente quelle ricche), l’ignoranza sfavillante di molti docenti, il cattivo esempio dei politici, il vuoto pneumatico degli intellettuali (non si vedono in giro maîtres à penser capaci di far vibrare gli animi con l’autorevolezza di un’idea), il dogmatismo pantofolaio di taluni sacerdoti (che fanno il compitino del calendario liturgico, ma scansano la fatica dell’evangelizzazione), la grettezza di molti imprenditori (che vivono gli affari con un orizzonte temporale cortissimo e senza un minimo di responsabilità sociale), il cattivo gusto di molti artisti o presunti tali.
Dico questo non per giustificare o per risolvere con il classico “è colpa di tutti quindi di nessuno”. Tutt’altro. Credo profondamente che i tempi che viviamo hanno il vantaggio di non concedere più alibi. Così come finalmente si è riformato il sistema pensionistico, dando la speranza (per ora solo quella) alle nuove generazioni di poter un giorno avere una pensione, allo stesso modo bisogna imparare a guardare i fenomeni oltre il proprio naso, assimilando anzitutto per sé il senso di responsabilità e poi chiamando gli altri a un impegno condiviso.
Bisogna finalmente mettere fine all’idea errata e folle che esista il primato della politica nella vita di una comunità. La politica ha il compito della gestione, di governare la ripartizione della ricchezza (come ricorda Piero Angela nel suo pungente saggio “A cosa serve la politica?”), ma non è una e trina, non sostituisce e non esautora gli altri pezzi della macchina sociale. La città è un organismo, un corpo unico. Se si rompe un braccio per una caduta (di stile), ci saranno state gambe molli a sorreggerne il peso, ma anche un cervello incapace di allungare il passo. La politica non è il cervello, ma le gambe di una città. Se questo corpo è dinoccolato fiacco e goffo, non si può pensare di chiedere solo alle gambe di tenerlo su. Avrà bisogno di braccia robuste, di una schiena dritta, di spalle forti, di energia sana e nutriente, di un cervello lungimirante, attento e che abbia cura di tutto il resto. E il cervello di una città è fatto da chi ha il dovere e l’onere di guardare oltre le generazioni: gli imprenditori, gli intellettuali, i professori, gli studenti, i professionisti, insomma tutti quelli che creano la ricchezza di una comunità, sia materiale che immateriale. Se i politici vogliono fare le braccia o la testa, facendo gli imprenditori e gli intellettuali, ovvero se questi ultimi passano il tempo a cercare di influenzare le scelte politiche, allora il corpo vacilla e va a sbattere. È un vizio tutto italiano e molto meridionale, non solo beneventano. Non a caso nei paesi anglosassoni la politica si definisce con due sostantivi: policy e politics, per distinguere con il primo termine le azioni per raggiungere un obiettivo e con il secondo l’attività dei rappresentanti del popolo.
Il destino, i problemi e le ambizioni di una città straordinaria come Benevento sono ricorrenti in ogni borgo d’Italia. Ma questa città ha tante carte da giocare più di altre, a patto che abbia la capacità di muoversi e pensare come un unico corpo. Non è più tempo di giocare con le parole, né di lanciare strali con il dito puntato verso un’indistinta umanità insulsa e pavida. È come se il piede criticasse la mano, a che serve? È il tempo di un impegno autentico della politica, degli intellettuali, delle agenzie educative, della Chiesa, delle imprese. È il tempo di rimboccarsi le maniche e fare. Se proprio ci si vuol mettere nei panni degli altri, scegliamo anche l’esempio dei veneti o dei genovesi, capaci di tirarsi su dopo immani calamità, senza fiatare e senza polemizzare. Le nostre calamità si chiamano arretratezza, familismo e chiusura.
È tempo di insegnare ai giovani che la città è un valore, che è la propria casa, la propria pelle. È tempo per i “vecchi” di sentirsi parte di un progetto più grande, dove tutto è patrimonio di tutti, dove il bene comune è un vessillo da difendere con le unghie e con i denti. È tempo di avere il coraggio di dirsi cose scomode, in tutti i campi, mettendo il sacrificio e la dedizione al posto di proclami e pistolotti. È tempo che ciascuno dia l’esempio.
Ma bisogna stare attenti a non blandire l’orgoglio stupido che esclude, quello che afferma un’identità a discapito di altre. Nella Roma imperiale la cittadinanza era un insieme indistinto e inscindibile di diritti e doveri, per cui si poteva affermare in ogni angolo dell’Impero: “Civis Romanus sum”. Se questa città vuole giocare fino in fondo il ruolo che la storia le ha dato, deve essere capace di far dire con fierezza non solo ad ogni beneventano, ma ad ogni sannita: “Civis Beneventanus sum”, ovunque viva o abiti. Credo che la vera opportunità da cogliere con il riconoscimento UNESCO sia proprio lo stimolo a scrollarsi di dosso per sempre meschinità e preconcetti da paesello, costruendo un nuovo senso di appartenenza. È tempo di avere tutti assieme il coraggio e l’ambizione di restituire a questa città la grandezza e l’influenza che ha avuto quando Santa Sofia fu costruita.