di Simone Aversano
(Sanniopress) – Essere “beneventesi” è uno status che si acquisisce sostanzialmente con la nascita. E’ lo stesso che essere beneventani: si nasce a Benevento, ci si vive anche solo per pochi anni e automaticamente si assume una conformazione etico-culturale del proprio essere che ci si trascinerà dietro (e dentro) anche in capo al mondo. E l’alternativa è secca: chi è di Benevento, o assume la connotazione del beneventano oppure quella del beneventese. Vie di mezzo e chimere tra le due forme di vita fortunatamente non esistono, e forse non sono mai esistite.
Da sempre, dunque, il beneventano la fa da padrone. Non a caso, egli porta il nome che ufficialmente si assegna agli abitanti ed agli originari del ridente capoluogo sannita. E’ l’altro, il beneventese, a doversi adattare con quello che gli rimane, assumendo forma e denominazione “a contrario” e nascendo appunto per essere contro, per contrastare ogni elemento caratteristico dell’antagonista beneventano.
Chiariamoci: non esiste una guerra civile. Beneventani e beneventesi sono cittadini italiani, europei, del mondo. Parenti, amici, madri, padri, figli, nipoti e cugini tra di loro. Non esiste un “muro” di Benevento, anche se forse l’estro pseudo-artistico che si respira ultimamente potrebbe portare a immaginare pure un’opera del genere (a patto che costi parecchio). Ma se lo scontro tra le due tipologie di individui non sussiste non è tanto e solamente perchè non viviamo nelle fiabe. Il motivo della non belligeranza sta nel modo stesso di essere del beneventano: un non-cives, un abitante nel vero senso della parola in quanto si limita ad abitare, ad occupare una posizione stanziale, a scaldare la sedia (o la poltrona, quando assume livelli di vertice). Si limita ad esserci tanto per esserci, non domandandosene il perchè e non sprecando tempo (secondo il suo modo di vedere) a cercare di comprendere ciò che gli sta intorno.
Fatta questa premessa, che serve anche da approfondimento e chiarimento, bene ha scritto Giancristiano Desiderio precisando che il vero punto cruciale nella “battaglia” tra beneventano e beneventese sta nell’obiettivo che il secondo deve porsi di non diventare come il primo, di non lasciarsi assorbire e mangiare omologandosi con tutto il resto. Un obiettivo che, scrive sempre Giancristiano, è preceduto da una premessa in cui si racchiude tutta un’altra questione altrettanto cruciale: riuscire a non fuggire da Benevento.
Personalmente, ho sempre espresso giudizi negativi riguardo ai miei amici, colleghi, coetanei decisi ad abbandonare la nostra città e la nostra terra per cercare altrove opportunità di studio e di lavoro. Ho sempre pensato (e in parte ancora penso) che alle carenze di un luogo, se di quel luogo fai parte, devi rispondere cercando di cambiarlo, offrendo il tuo contributo per una causa. Non scappando via. Ma in breve tempo ho compreso la vera radice della questione, ossia il modo di essere che sta alla base dei comportamenti. Il problema, insomma, non è tanto se si fugge o si resta, ma se, dovunque ci si trovi, ci si impegnerà per il cambiamento oppure si rimarrà con le braccia conserte ad aspettare che tutto piova dal cielo. E’ in questo una fondamentale differenza tra beneventese (nel primo caso) e beneventano (nel secondo).
Tutto sommato, allora, ben vengano le fughe di chi sarebbe rimasto solo per rimanere beneventano purosangue, uguale identico alla maggioranza. Negativamente vanno considerate, di contro, le fughe di quelli che lottano ogni giorno per rimanere beneventesi, ossia beneventani per cause di forza maggiore, sempre protesi verso il desiderio di una Benevento migliore, a cominciare dalla mentalità dei suoi abitanti. Ed è su questo che dobbiamo interrogarci: questa città che tipo di futuro si sta costruendo? A chi sta affidando le redini degli anni a venire, a dei semplici abitanti beneventani o a dei combattivi cives beneventesi?
Il futuro vive nel presente perchè nel presente esso si forma. Ma già questo è, troppo spesso, un concetto che il beneventano medio non può comprendere nella sua irrimediabile staticità. Così come il beneventano medio non subisce alcuno scossone nel leggere le giuste e preoccupanti osservazioni di Billy Nuzzolillo su Benevento come città non più tranquilla: se anche leggesse quelle parole, il beneventano non si porrebbe il problema, il giorno seguente, se continuare ad informarsi acriticamente tramite la stampa locale che colpevolmente (perchè ne avrebbe mezzi e possibilità) tralascia di approfondire le vicende che dipingono la nostra città come preda di affaristi e mafiosi. E non ponendosi tale problema, il beneventano continuerebbe ad avallare quel tipo di informazione che lo rispecchia e al tempo stesso lo forgia.
Dunque, come fare per rimanere beneventesi senza lasciarsi trasformare, senza diventare semplici e qualunquisti abitanti di una città stanca e lenta? Una ricetta non credo che ci sia. Io stesso, potendomi orgogliosamente definire beneventese, non so quanto ancora resterò tale in patria e se invece un giorno sarò costretto alla fuga. Ci sono però almeno due cose certe: la prima è che, come premesso, il beneventese ha gli strumenti per rimanere tale anche in capo al mondo; la seconda è che la sopravvivenza stessa di Benevento in un futuro prossimo richiede l’impegno di massa di un gran numero di beneventesi, di cittadini attivi e attenti, pronti a fare i giusti sacrifici morali e sociali per non far affondare la barca. E questa stessa necessità dovrebbe bastare ad evitare la fuga di quanti, stanchi della beneventanità, vorrebbero andar via. Perchè allo stato attuale delle cose, l’unica possibile strategia di sopravvivenza della Benevento futura è una sua totale rinascita.