(Sanniopress) – L’Italia è fatta a scatole. Per farla ripartire bisogna saper rompere le scatole. Nelle scatole ci sono poteri sterili: gli ordini professionali. L’Italia è davvero un paese molto strano: libero professionista significa che si esercita liberamente una professione. Ma in Italia se vuoi essere libero professionista non basta superare un esame di Stato e ti devi iscrivere ad un ordine. Questo si chiama potere corporativo. Gli ordini professionali sono sorti con le migliori intenzioni ma ben presto sono diventati delle corporazioni, appunto. Tutti. Quello dei commercialisti, quello degli avvocati. Così i medici, i farmacisti, i notai, gli architetti, gli ingegneri e naturalmente, dulcis in fundo, i giornalisti. Parto proprio da qui, visto che è casa mia.
Se vuoi essere giornalista devi essere iscritto all’Ordine. L’ordine ti consente, ad esempio, di essere direttore di un giornale. Se non sei iscritto all’ordine non puoi dirigere un giornale. Devi essere almeno pubblicista. Ugo Stille non era giornalista professionista, era “solo” pubblicista ma arrivò a dirigere il Corriere della Sera. Eppure, per essere giornalista non è necessario essere iscritti all’ordine: basta l’articolo 21 della Costituzione – che a sua volta si regge sulla libertà espressiva del pensiero – e il contratto di un editore. Questa è la cosa più importante di tutte: un editore che ti faccia il contratto e ti assuma. Anzi, per essere iscritto all’ordine devi proprio avere un contratto da praticante e dopo diciotto mesi di lavoro in redazione hai maturato il diritto a sostenere l’esame e se lo superi – ma chi è che non lo supera! – sei finalmente iscritto all’ordine (altra cosa è il caso delle “scuole di giornalismo” che insegnano ciò che non si insegna e sfornano disoccupati). Se, però, nel frattempo l’editore ti licenzia, l’iscrizione all’ordine te la fai fritta. Tutto sommato, però, l’ordine del giornalisti è il male minore.
Sugli ordini professionali è uscito un libro molto utile di Franco Stefanoni: I veri intoccabili, edito da Chiarelettere. Qui trovate tutto. Gli ordini professionali sono ventotto. La loro origine risale al fascismo ma è nell’Italia democratica che si sono moltiplicati. L’altro giorno Sergio Romano nella sua rubrica delle lettere sul Corriere ricordava proprio questo: il fascismo è stato sempre indicato come la causa di tutti i mali e l’antifascismo l’origine di tutti i beni, eppure una buona parte delle istituzioni e delle leggi concepite e scritte durante il Ventennio venne adottata dalla Repubblica e con il tempo si è rafforzata. E’ il caso degli ordini professionali. Abolirli è sacrosanto, ma sembra impossibile.
L’ordine è a tutti gli effetti una corporazione che detta le regole di comportamento o deontologiche, controlla gli accessi alla professione, stabilisce le tariffe minime, gestisce la cassa previdenziale, siede al tavolo delle trattative con il governo. Sono enti senza scopo di lucro ma il potere economico che movimentano è enorme. Un dato: il volume d’affari generato dai professionisti iscritti all’albo è stimato in circa 196 miliardi, pari al 15 per cento del Pil. Chi esercita la professione è obbligato a versare contributi. I professionisti sono molto presenti in Parlamento, ecco perché è difficilissimo abolire gli ordini o anche fare una buona riforma: i professionisti iscritti a un ordine rappresentano il 44 per cento circa dei deputati e il 45 per cento circa dei senatori.
Spesso si sostiene che l’esistenza degli ordini professionali è necessaria per tutelare i cittadini ed esercitare un controllo sulle professionalità. Ma le cose non stanno così: per esercitare una professione bisogna il più delle volte superare un esame di Stato, ma una volta superato l’esame non c’è alcuna necessità di essere iscritto ad un ordine o corporazione. Il vero problema è avere esami di Stato veri. Negli altri Paesi si usa così e al massimo ci sono delle libere associazioni. In Italia no, qui si corporativizza – scusate il brutto neologismo – tutto.
Vi voglio raccontare una storia prima di chiudere. Nel giugno del 2006 l’allora ministro Bersani presenta una prima riforma di liberalizzazione dei mercati protetti, la cosiddetta “prima lenzuolata”. Dentro vi è un po’ di tutto un po’: la riduzione delle spese sulla chiusura dei conti correnti bancari, l’obbligo per le banche di adeguare i tassi d’interesse alle variazioni stabilite dalla Banca centrale europea, e anche la liberalizzazione delle licenze per i taxi. Un provvedimento di cui si parlava da tempo. Due anni prima proprio il mio giornale, L’Indipendente, fece una campagna stampa per la liberalizzazione delle licenze per i taxi. Direttore del giornale era Giordano Bruno Guerri. Eravamo considerati un giornale di destra e i tassisti, che per tradizione a Roma stanno a destra, si arrabbiarono non poco, tanto che qualcuno di noi venne minacciato proprio sotto la sede del giornale. In realtà, non stavamo a destra o, se volete, stavamo a destra ma rompevamo le scatole a tutti, anche a destra. Il provvedimento per la liberalizzazione delle licenze dei taxi ci sembrava semplicemente giusto per rivitalizzare un mercato delle licenze che era gestito da pochi a danno di molti: aspiranti tassisti e clienti. Così funziona anche per gli ordini professionali. L’ultimo dato: il 44 per cento degli architetti è figlio di architetti, il 41 per cento dei farmacisti è erede di farmacisti, il 37 per cento dei medici è figlio di un medico. O si “rompono le scatole” o l’Italia non riparte.