(Sanniopress) – Caro Giancristiano, i problemi che poni, con la lucidità beffarda del tuo pensiero e la provocatoria chiarezza della tua scrittura, si rivelano sempre di urgente attualità. E spingono a interrogarci e a interloquire. Tale è la pratica che costituisce la ragione della nostra esistenza e del nostro comune lavoro. Degli argomenti che tu affronti, abbiamo avuto già occasione di discuterne. L’ultima volta, se ben ricordo, in una sala non pienissima della Biblioteca provinciale, durante la presentazione del testo – da te curato – con gli scritti sulla scuola di Einaudi e di Valitutti. Quella aula semideserta mi ripresentava una verità amarissima. La scuola non interessa quasi a nessuno. Meno che mai a chi ha fatto (o ha dovuto fare) la scelta della vita.
Mi fa piacere che tu mi associ a Nicola, nostro amico comune. Ci siamo incrociati, noi tre, più volte. Anche durante uno di quei corsi organizzati per distribuire un po’ di abilitazioni in cui io interpretavo la parte del docente e voi dei discenti. Ma le parti le aveva distribuite quel regista severissimo che chiamiamo Tempo. Era solo l’età avanzata – la mia – a stabilire, in quella circostanza, i ruoli e non altro. E ti ringrazio per quel gentilissimo “non ne ha più l´età, ma quella che ha è portata con grande classe”.
La fresca apparizione su questo variopinto baraccone mediatico ti ha però spinto verso un non troppo preciso collegamento. Stimo e voglio bene a Nicola ma sull’occupazione abbiamo avuto e abbiamo posizioni profondamente diverse. Il mio giudizio su questo inutile e, fondamentalmente démodé, strumento di lotta è netto, almeno dal 1993, anno della prima occupazione che ebbi modo di osservare in diretta al “Giannone” di Benevento. Quindi strumento di lotta sbagliato nel metodo e nel merito. Un’inefficace perdita di tempo. Un costoso giochino per giovani che amano provare il brivido di una trasgressione, naturalmente controllata dagli amici e dai conoscenti di papà. E, infine, una dannosissima arma sistemata nelle mani di molti esponenti di una piccola e media borghesia, di scarsissime letture e scadenti virtù civili, che non aspettano altro che riversare critiche “severe” sul mondo della scuola: “Professori che non vogliono lavorare e che si fanno quattro mesi di vacanze all’anno”, “alunni che non vogliono fare nulla” (per inciso: sono sempre i figli degli altri che non vogliono fare nulla. Versione scolastica di quel certo “giudizio” maschilistico sulle donne che sarebbero ecc. “tranne, s’intende, mia madre e mia sorella”). Idola phori, avrebbe detto il vecchio Bacone. Chiacchiere di piazza. O di FB. Noi sappiamo che queste frasi sono false. Sono moltissimi i professori e le professoresse che lavorano con entusiasmo. Sono moltissimi gli studenti e le studentesse che attraversano quotidianamente le nostre aule con la gerla colma di domande, con i cuori pieni di speranze e con un impegno davvero stupefacente.
Per cui posso rassicurarti: i miei alunni non si sono disorientati. Le mie “prediche inutili” sull’occupazione, per citare un titolo di un testo a te caro, non sono mutate da una ventina d’anni a questa parte. Ciò non significa che la scuola vada bene e non debba essere cambiata. Non sarei aprioristicamente contrario all’abolizione del valore legale del titolo di studio e a una riforma in senso “liberale” della scuola e della società. Mi pare, però, che il vestito liberale non s’adatti bene al nostro paese e se una scuola pubblica statale, così come tu la descrivi, sia stata messa su – prima ancora che dal fascismo – dai gruppi dirigenti della Destra e della Sinistra storica, cioè dagli unici politici (Croce ed Einaudi a parte) autenticamente liberali della nostra storia unitaria, concluderemo che qualcosa in Italia non funzioni per il verso giusto.
Tu mi risponderai che – storicamente – questo è dipeso dalla necessità di doversi affrancare dall’egemonia cattolica (o clericale) sull’istruzione che ha marcato, nel bene e nel male, secoli e secoli di vita e di cultura italiane. Ma perciò ti chiedo: come potrebbe trasformarsi la scuola in senso liberale con la società civile “senza stato”, direbbe Sabino Cassese, che ci ritroviamo? Con le profonde, radicali differenze di classe di cui facciamo giornalmente esperienza? Con gli ordini professionali e i sistemi corporativi mai scalfiti e con le professioni (medici, avvocati, magistrati, notai, docenti universitari) che continuano ad essere trasmesse di padre in figlio, come se, solo da qualche mese, sia stato emanato il Capitulare di Quiercy da Carluccio ‘o scocciato (come uno studente buontempone, ma dalla argutissima creatività, mi definì Carlo il Calvo)?
E’, in fondo, a ben vedere, il problema della frase di Luigi Sturzo. Una scuola liberale potrebbe nascere in una società profondamente liberale. Ma gli italiani non amano i Cavour, gli Einaudi, i De Gasperi. Amano i Crispi, i Mussolini, i Berlusconi. E, se capita che ad organizzare la scuola sia uno come Gentile, Stato etico a parte, viene fuori una scuola con i meriti che tu stesso riconosci.
Ma quanti Gentile ministri della pubblica istruzione abbiamo avuto nella nostra storia nazionale? Da qualche anno si porta la scuola-azienda con il dirigente-manager incorporato e prossimo a germinare (o, se preferisci, gelminare). Da sempre sostengo che la scuola, per me, inizia intorno al quindici settembre e finisce ai primi giorni di giugno. Quando, cioè, ci sono i ragazzi con cui, magari, provare a leggere il Fedro o qualche pagina di Spinoza. E liberamente discuterne. Tutto il resto è noia. Burocrazia e “carte a posto”, ossia la regola aurea di una non certamente aurea “mediocritas”.
Caro Giancristiano, io non ho le tue sicurezze. So che il liberale pratica il dubbio. E se della modernità è possibile cogliere il carattere dominante, esso è proprio il dubbio. Continuiamo a dubitare. Continuiamo a parlarne. Per scoprire, magari, come coniugare libertà e giustizia. A ben vedere il problema è tutto qui.