di Giancristiano Desiderio
(Sanniopress) – Esiste solo una cosa più veloce dei treni che (non) passano per Benevento: la dichiarazione di Mario Pepe velocissima nell’annunciare la soppressione della prossima corsa ferroviaria. Questa volta il capostazione di Benevento, paletta e fischietto alla mano, berretto in capoccia, ha annunciato che molto probabilmente il treno delle 9.26 preveniente da Bari e diretto a Roma non farà più scalo in città. Dunque, chi conta su quel treno è avvisato e per andare a Roma dovrà arrangiarsi con altri mezzi. Il treno delle 9.26 non è velocissimo, oltre a fermarsi a Caserta usa fare sosta anche nell’aperta campagna romana, ma è pur sempre un carrozza su cui salire. Se verrà soppresso non resta che il pullman della Marozzi.
Benevento è ufficialmente una città lenta. Niente treni per Napoli, niente trasporti cittadini, raggiungere Roma senza l’automobile è un’impresa ottocentesca. Benevento è così lenta che rasenta l’immobilità. Naturalmente in questa immobilità va forte la retorica che è la cosa più veloce che ci sia, anche più veloce del capostazione che, anzi, si è formato proprio a questa scuola sofistica. La retorica prevede che Benevento, attraverso la grazia ricevuta da Santa Unesco Sofia, diventi in poco tempo un centro turistico di tale capacità attrattiva da fare morire d’invidia la città di Dante e la città di Goldoni. La retorica prevede che Benevento sia a cavallo tra il Tirreno e l’Adriatico e quindi, come se fossimo al tempo di Traiano, è una perfetta cerniera non solo tra la fascia costiera e il Gargano ma anche tra la stessa Roma e Bari. La retorica prevede che per Benevento passi nientemeno che il Corridoio 8 che, dopo esser passato sotto la volta dell’Arco di Traiano, tira dritto verso l’Europa dell’Est. Insomma, secondo la velocissima retorica della città più lenta d’Italia, Benevento è caput mundi.
Proprio ieri Billy Nuzzolillo ci ha ricordato un’altra verità dimenticata che la retorica ha sempre trattato come un progetto necessario e soprattutto fattibile: l’aeroporto. Pensate un po’, a Benevento si voleva l’aeroporto. E ogni tanto c’è qualcuno che ancora utilizza l’argomento. E’ evidente che non sa letteralmente di cosa stia parlando. La città lenta al massimo può aspirare ad avere dei campi da volo per le mongolfiere. Ma anche qui c’è chi è stato più veloce del signor di Mongolfier che non abita a Benevento ma a Fragneto.
La lumaca beneventana è una città che nutre aspirazioni al di sopra delle sue reali possibilità. Ha una classe borghese – prim’ancora che una rappresentanza politica – boriosa che si dà arie da gran signora ma è tutta cipria e belletto, senza freschezza e conoscenza del mondo. La borghesia beneventana è tribunale, ufficio, scuola. E’ una borghesia vecchia anche quando l’anagrafe dice che è giovane: perché è l’imborghesimento del ceto impiegatizio che per sua natura è privo di responsabilità e zeppo di moralismo. I treni non passano più per la città lenta perché non c’è nulla da veicolare. La città lenta, il cui prodotto interno lordo è per metà fatto da trasferimenti e impieghi, può tranquillamente sostituire i treni con le carrozze. Nella città lenta la lentezza si teorizza con la decrescita, lo slow food, persino l’anticapitalismo. Con la lentezza si vorrebbe riscoprire la qualità della vita, ma questa idealizzazione dell’Arcadia non è una virtù ma un ripiego: è la classica volpe che non arrivando all’uva dice che è acerba. La lentezza come virtù e benessere presuppone una città moderna che sappia produrre anche in sé la ricchezza di cui ha necessariamente bisogno per vivere.
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