di Billy Nuzzolillo
(Sanniopress) – Il mio precedente post “Il gioco della rivoluzione”, come era prevedibile, ha originato un appassionato dibattito su Facebook. Soprattutto a qualcuno non sono piaciuti i miei giudizi sui cosiddetti “antagonisti” (“Da oggi come Paese abbiamo un nuovo invidiabile primato: quello di avere gli “antagonisti” più idioti al mondo”) e su certa sinistra (“rigurgito nichilista di quella parte della sinistra progressivamente suicidatasi nell’ultimo decennio”). Sono stato definito “intelligentone” poichè avrei addossato a Francesco Caruso la colpa degli scontri di Roma (quando?).
Insomma, piuttosto che “afferrare il toro per le corna” si è preferito, ancora una volta, spostare l’attenzione sull’atteggiamento tenuto dalle forze dell’ordine (a cui certamente erano state impartite direttive tali da facilitare i facinorosi) e sul ruolo dei cosiddetti infiltrati (la cui presenza non mi sento affatto di escludere).
E, invece, a mio avviso bisognerebbe avere il coraggio di evidenziare che quanto avvenuto nella Capitale rappresenta l’onda lunga del fallimento di una certa sinistra.
Leggo testualmente sul sito de Il Fatto Quotidiano (che non è “Il Giornale” e nemmeno “Libero”:
“Con il neonato movimento degli indignati hanno poco a che fare. I protagonisti delle violenze di ieri a Roma hanno invece a che fare con l’eterno antagonismo italiano: l’area dell’autonomia e l’ala estrema del movimento anarchico. Corroborati, come accade sempre più spesso, da frange ultras politicizzate e, soprattutto, settimanalmente allenati agli scontri da stadio. Un quadro non tanto diverso da quello che si è visto dieci anni fa al G8 di Genova (dove però il blocco nero era composto in gran parte da militanti stranieri, soprattutto nordeuropei) e ancora prima. Con radici negli anni Settanta, come dimostrano i tanti capelli bianchi che spuntavano dai fazzoletti calati sul volto.
Striscioni e slogan del blocco nero rimandano ai soliti noti: tra questi, Autonomia Contropotere, il centro sociale Askatasuna di Torino, Gramigna di Padova, Carc (Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo), ai quali gli investigatori affiancherebbero gruppi di ultrà di sinistra del Livorno, del Cosenza, del Venezia, del Modena. Sul sito del centro sociale torinese Askatasuna-Autonomia contropotere si legge per esempio un editoriale tutt’altro che critico verso le violenze: “Al 15 ottobre ci si è arrivati in una situazione assurda, dove gli organizzatori dei comizi finali in piazza San Giovanni, avevano desistito da tempo di sfilare verso i palazzi del potere romano, che era l’unica cosa incisiva in una giornata del genere. Le iniziative dei giorni scorsi volevano smorzare e incanalare una rabbia diffusa e irrapresentabile che oggi si è manifestata in tutta la sua espressione”.
E ancora: “Diciamola tutta, se c’era un paese che doveva trasformare l’indignazione in incazzatura di massa, quello era proprio l’Italia, che vive un presente veramente penoso. La giornata di oggi, piazza San Giovanni nella fattispecie, si è trasformata in ore di resistenza di massa alle forze dell’ordine, chiamate a respingere una rabbia sacrosanta verso un presente di austerity. Magari non è comprensibilissimo ai più, ma le ore di resistenza romana odierna hanno detto chiaro e tondo che al debito, ai sacrifici, alla casta, all’austerity a senso unico, che ribellarsi è qualcosa che può unire, e che può succedere”. Fino alla conclusione: “Doveva finire con qualche comizio in piazza San Giovanni, è finita con ore di resistenza”.
Un quadro, insomma, non molto dissimile da quello che sommariamente emerge dall’articolo su Francesco Caruso dell sito Giornalettismo.com alla vigilia della manifestazione di Roma e a cui ho fatto riferimento nel mio post (qualcuno su Facebook l’ha definito un’inciampatura….). E aggiungo la testimonianza del collega Pietro Orsatti (non un giornalista di “Panorama” ma uno che ha scritto su “Diario”, “Il Manifesto”, “L’Unità”, “Repubblica” , “Liberazione”, “PeaceReporter”, etc.):
“Poco dopo le due, scendendo verso via Cavour, la fine dell’illusione. Almeno per me. E per quegli altri occhi che Genova nel 2001 l’hanno vista. Piccoli gruppetti che si mettono a lato del corteo, con tutta calma, coordinati, guidati (da messaggi e telefonate), e iniziano in bella vista a prepararsi per quello che verrà. Si aprono zaini, compaiono caschi, felpe nere, addobbi di un Natale funereo. Sono ragazzi. Ma qualche testa di “esperienza” c’è. Non la si intuisce soltanto. Sono lì, si muovono sicuri, coordinano, dettano i tempi della prossima follia.
Bastoni, spranghe e altra chincaglieria i nostri giovanotti non se li sono portati dietro. Arriveranno poi, con la dovuta calma, oppure l’armamentario lo raccoglieranno per strada, nei portoni, nei vicoli, nei cestini dei rifiuti dove gli strateghi surreali che hanno deciso di fare il favore a Berlusconi e alla destra più becera hanno fatto posizionare tutto quello che servirà a mettere in scena lo spettacolino della guerriglia urbana.
Di polizia non se ne vede traccia. Anche quando c’è. Non si capisce perché. Perché non intervengano quando inizia la kermesse demenziale. Perché non siano intervenuti quando era partita la preparazione davanti ai loro occhi. Perché. Forse c’era l’ordine di non creare contatti che potessero far precipitare la situazione come a dicembre scorso. Forse c’era il bisogno e l’ordine di consentire l’esplosione della violenza senza intervenire. Di fatto quando a via Cavour è esplosa la violenza le forze dell’ordine non sono intervenute. Quando le banche e un supermercato venivano assalite, quando le prime macchine andavano a fuoco. A tentare di bloccare i gruppetti della soldataglia dell’antagonismo presunto e del conformismo della violenza c’erano solo i manifestanti. A mani nude. Disorganizzati. Gente di popolo e di buon senso. Poca cosa davanti a chi si arma per dare sfogo al nulla delle frustrazioni.
Facciamo l’identikit di questi eroi da fumetto mal scritto e mal disegnato. Sui vent’anni al massimo, un migliaio di euro di felpe firmate, scarpe firmate, jeans firmati, cappellino firmato, maglietta finto rivoluzionaria firmata e il telefonino (magari i telefonini) di ultima generazione e da 600 euro in su regalato da papino.
La carne da macello di questo patetico esercito dalla funerea iconografia parafascista era composto da ragazzini annoiati e viziati. Figli di papà.
Così è andata. L’embrione di un movimento ampio e plurale che poteva rinascere in questo paese dopo la macelleria messicana del 2001 a Genova è stato liquidato da massimo 500 ragazzini figli di papà guidati da qualche vecchio arnese che dovrebbe andare in pensione da decenni invece che continuare a rompere i coglioni cavalcando e strumentalizzando idee altrui”.
Appunto: mandiamoli in pensione.