di Antonio Greco
Pioveva. Molto. Fin troppo. La piazza principale era vuota e inanimata, anche se erano appena passate le sette di sera. Camminavo con il mio solito passo, facendo attenzione a non mettere i piedi in qualche pozzanghera e riparato da un cappello nero e da un ombrello comprato dall’ambulante all’uscita dell’ufficio.
Tornavo a casa dopo la solita giornata di lavoro. Ad attendermi, un copione già scritto: una cena preparata senza amore da mia moglie, il racconto di entrambi della stessa ripetitiva giornata e, molto probabilmente, una inutile discussione sul nulla fatta solo per sentirci ancora vivi.
Non avevo voglia di rientrare a casa a interpretare la solita parte, ma cosa altro potevo fare? In fin dei conti quello sarebbe stato solo il finale di una recita iniziata la mattina. Una recita che ricordo andare avanti da oltre quarant’anni di vita. Solo la notte, durante il sonno, sono sicuro di uscire dalla mia parte, concedendomi qualche sogno e fantasticando su cosa poteva essere, e invece non è. Sogni, appunto. Alle prime luci dell’alba svaniscono e la rappresentazione, più comunemente nota come vita, riprende.
A pensarci bene devo essere anche un bravo attore: rispettato al lavoro, avanzato ripetutamente di grado e prossimo alla pensione, sposato, figli senza problemi ormai grandi e tranquilli economicamente, una cerchia di amici fidati e una salute di ferro. In sintesi, un uomo considerato da tutti felice. Quanti vorrebbero avere la mia vita? Chi si lamenterebbe? Ma io non sono felice, e ho dimenticato cosa si prova quando lo si è. Sono certo che c’è stato un tempo in cui lo sono stato, vorrei ricordarlo, o addirittura tornare ad esserlo. Un sogno, appunto.
Con questo pensiero camminavo sotto la pioggia, riflettendo che quell’improvviso acquazzone rappresentava l’unica sorpresa nella mia quotidiana recita. Non potei fare a meno di sorridere amaramente.
La pioggia non accennava a diminuire. Attraversata la piazza mi ritrovai a camminare su una strada leggermente in salita, quando ebbi la sensazione che qualcosa stava cambiando. L’aria sembrava aver preso un profumo di nocciole, il buio della sera sembrava meno buio e la pioggia che mi bagnava la mano sembrava aver perso parte della sua fluidità. Le gocce restavano lì sulla mia mano e non accennavano a cadere.
D’istinto decisi di fermarmi e osservare bene quello che stava succedendo. Mi sforzai di concentrare tutti i miei sensi per cercare di capire. Chiusi l’ombrello e lasciai che la pioggia mi cadesse addosso. Spalancai anche la bocca per assaporarla e, intensissimo, il sapore di nocciola mi invase. Scrutai attentamente il cielo, i lati della strada e il terreno sotto i miei piedi. Ci misi un po’ a capire la situazione, che era lì, sotto i miei occhi. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da terra ma non ero preparato ad accettare ciò che stavo vedendo. Furono un lampo e un tuono ravvicinatissimi ad aiutarmi. Mi risvegliarono e quello che accadeva ai miei piedi fu improvvisamente chiaro. In quella piccola strada in salita la pioggia che si accumulava copiosa non scendeva dietro di me, ma risaliva dal tallone alla punta dei miei piedi, continuando il cammino davanti a me lungo la strada. Per quelle gocce di pioggia le leggi della fisica erano diventate non necessarie e la forza di gravità era diventata una semplice variabile. L’acquazzone aveva scelto di regalarsi una sorpresa. Ogni singola goccia aveva deciso che essere intrappolata nel tipico, continuo e ripetitivo scorrere dall’alto verso il basso non andava più bene.
Rimasi in contemplazione non so quanto tempo, sotto i miei occhi accadeva qualcosa di straordinario. Ammiravo quelle semplici gocce di pioggia.
Riaprii l’ombrello e, lentamente, ripresi a camminare. La pioggia ai miei piedi continuava a risalire e a farmi compagnia lungo la strada. Alla fine, la leggera e lunga salita terminò. E una profonda tristezza, immediatamente, prese possesso del mio corpo. Da quel punto in poi mi aspettavano solo vie piane. Nessuna salita, nessuna emozione. Inutilmente, prima di raggiungere casa, cambiai strada alla ricerca di qualcosa che assomigliasse anche a una piccola salita. Davanti alla porta di casa pensai pure di ritornare indietro, ma la paura della delusione di non trovare più ciò che stavo cercando mi bloccò. A malincuore decisi di aprire la porta. Sapevo che oltrepassata quella linea la mia recita avrebbe ripreso i consueti binari. Invece le sorprese per me, quella sera, non erano finite.
Non ricordo cosa mi accolse per primo, se il profumo della parmigiana, se il suono della sinfonia New world di Antonin Dvorak o se le luci di casa tutte accese.
Chiusi la porta ed entrai timidamente. Non ero sicuro che quella fosse proprio casa mia. Mi avventurai nella sala da pranzo alla ricerca di conferme e certezze. Era vuota e inspiegabilmente in silenzio. Di solito il vociare di qualche inutile quiz tv invadeva la stanza e mia moglie seduta sul divano, senza distogliere lo sguardo, a stento mi salutava.
Esaminai accuratamente la stanza: il tavolo, le sedie, la libreria, i soprammobili e le foto di famiglia. Era proprio casa mia, non c’era alcun dubbio. Ancora con l’ombrello in mano, lo posai insieme al cappotto e al cappello. Non mi restava che seguire la musica e capire cosa diavolo stesse succedendo. Prima però volevo avere una conferma: in cucina, nel forno, una teglia di melanzane alla parmigiana era quasi pronta per essere mangiata. Non provai nemmeno a ricordare quanto tempo era passato dall’ultima volta che mia moglie aveva cucinato la sua specialità. Agli inizi del matrimonio la faceva spesso, poi divenne sinonimo di festeggiamento per le occasioni speciali, e poi scomparve del tutto. Di una cosa ero certo, anzi due: impazzisco per la parmigiana e non c’era nulla da festeggiare.
Lasciai la cucina e, anche, tutte le luci accese. Avevo voglia di spegnerle ma avevo paura di interrompere quella specie di incantesimo che stavo vivendo. Per lo stesso motivo evitai di chiamare il nome di mia moglie, tanto da qualche parte doveva essere.
La musica mi portava al piano superiore, verso le stanze da letto.
Mentre salivo le scale realizzai la totale assurdità della situazione e dei miei pensieri. Così decisi di chiamare mia moglie. Gridai, urlai, ma non ottenni risposta. La musica era sempre più forte e proveniva dal bagno. La porta era socchiusa e lasciava filtrare una debole luce. Spiai all’interno: mia moglie, nella vasca, immersa nella schiuma, con gli occhi chiusi, si stava chiaramente masturbando. L’eccitazione fu immediata e, senza dire una parola, spalancai la porta. Mia moglie, aprendo gli occhi, mi sorrise, invitandomi a spogliarmi e a continuare quello che era in atto. Erano anni che non vedevo il suo sorriso.
Tutto ciò che successe in seguito e che avvenne in quella serata lo ricordo come un ritorno al passato, quando una buona cena, fare l’amore e conversare con la persona amata rappresentavano la parte migliore della giornata, quella che si attendeva sin dal mattino.
Ci addormentammo abbracciati; è incredibile quanto mi mancasse quella sensazione!
La mattina seguente fui svegliato da un lampo e da un tuono in lontananza. Scesi in cucina. Mia moglie preparava la colazione. La salutai, mentre il mio sguardo andava con una certa soddisfazione ai piatti sporchi. Riconoscevo il mio, ancora sporco di sugo.
Negli occhi di mia moglie, però, erano scomparsi il sorriso e la felicità di poche ore prima. Tutto sembrava al proprio posto e pronto per ricominciare col solito copione, e gli eventi appena successi già dimenticati. Provai a parlarle della serata appena trascorsa ma era come se non mi ascoltasse. Mia moglie era la stessa di sempre, i soliti gesti, le solite parole, il solito rituale. Le sorprese come erano arrivate erano andate via.
Sconfortato, non mi restava altro che sedermi e fare colazione, e ricominciare la quotidiana recita. Accesi la radio. Mangiavo e distrattamente ascoltavo. Un professore di fisica spiegava allo scettico intervistatore la possibile esistenza di universi paralleli. La teoria delle stringhe, la chiamava. Infiniti mondi in apparenza uguali al nostro tranne che per piccoli particolari. Ecco! Forse per qualche ora, non so come, mi sono ritrovato in un altro mondo, in cui mia moglie è sorridente e felice, io sono soddisfatto della mia vita, e ci amiamo come il primo giorno. Forse esiste un mondo in cui tutte queste cose sono reali e accadono ogni giorno, al me stesso di quel mondo.
Un universo in cui sono finalmente sereno, dove le gocce di pioggia risalgono le salite e profumano di nocciole. Particolari, appunto.
(tratto da sito Racconti nella Rete)