(Sanniopress) – Discussa, ribattezzata, odiata, osannata, auto-celebrata, coscienziosa, difforme, mafiosa, vergognosa, rinnegata ed interessante. Sono stati usati tanti aggettivi per descrivere la LIV edizione della Biennale d’arte, quella di Venezia, “scalino simbolo” dell’Arte, che dal mondo prende e al mondo dà. Ero ancora in Spagna quando è stata inaugurata, e come nei mesi precedenti l’apertura, lo scandalo ha fatto da portavoce.
Sì, insomma, poca arte nei primi articoli che raccontavano della Biennale ma tante “banane nel culo” e “donne oggetto”. È proprio cosi che veniva presentata, al che la mia curiosità è stata tale che, dopo una due-giorni in pullman, partenza Granada arrivo Vicenza, in compagnia di 50 rumeni e un tunisino, con aria condizionata guasta già dalla Francia, ed arrivo a destinazione in automobile della ditta a causa del motore in avaria all’altezza di Genova, sì, l’ho fatto, sono andata a Venezia.
Pochissimi i segnali della presenza dell’arte in città o per meglio dire, con un’amica ci siamo ripetutamente perse chiedendo della Biennale, incontrando i cartelli che la segnalano solo a 200 metri dall’ingresso.
Finalmente giunte, si paga (secondo alcuni abbastanza caro…), il costo è di 20 euro se non sei studente, giornalista, anziano o gruppo; fin qui tutto in regola, insomma.
E dunque inizia il viaggio nell’arte dopo che ne ho appena terminato uno incredibile… in pullman.
Sul discusso “Padiglione Italia”, che non è la prima cosa che ho cercato di vedere, lo ammetto!, ho poco da dire.
Non commento la disposizione in stile magazzino che non sarebbe neanche male se, come in un vero magazzino, le merci fossero ordinate secondo un senso, un’appartenenza o una logica.
In un magazzino, infatti, è difficile che le uova siano sotto i pacchi di cemento armato che è a sua volta alla destra del latte per neonati contenuto nelle stesse cassette del diserbante…
Ebbene sì, questa è l’immagine che mi sono fatta del famigerato Padiglione, ma che avrete tutti, sonoc erta, se vi dovesse capitare di vederlo.
Un ordine da magazzino ma fatto da un robot al quale abbiamo, tutti noi, dimenticato di inserire i cinque sensi. Così ho visto arte e bravi studenti ovvero ho visto troppo.
Un’infinità di “opere”, molte tante troppe, per essere lì “ammassate”.
Una delle delicatezze che l’Italia non ha mai appreso è il minimalismo, detto anche realtà dei fatti.
Esporre in Biennale è una delle cose che ogni artista vorrebbe vivere nella propria vita, quindi non vedo perché una volta giunto lì il nostro “eroe”non pretenda di veder “respirare” la sua opera, ricavarsi il suo piccolo spazio nel quale accogliere il visitatore.
Occuparsi di luci e corretta distanza da cui osservare l’opera per farla comprendere. Accarezzare il frutto del proprio lavoro artistico, delle proprie idee, che giungono in uno dei luoghi più importanti in cui trovare un confronto con chi paga, non ha prezzo.
A questo si aggiunga, quello che per me è un particolare scioccante: sotto ogni opera è posizionata una cassa di legno! Sulla cassa è riportato il nome dell’artista, ma prima di tutto, udite, udite!, quello del “curatore-critico-spingitore di spingitori di cavalieri”. Per la serie: “Chi ti presenta?”!
Il bello però è che tante casse sono sparse in giro per il Padiglione con, in bella evidenza, la scritta “siediti” per invitarti al riposo.
Molto carina e apprezzabile, quindi, l’idea che io possa sbagliarmi e sedermi sul nome di un curatore, quello che si prende il 60% del guadagno sulla vendita della tua opera e senza il quale non sei nessuno perché nessuno ti conosce.
E poi, ancora!, ma da dove proveniva la maggior parte dei lavori? Tra quelli di artisti consolidati sono inciampata in pitture molto simili agli esercizi di stile fatti in accademia per 5 anni.
Cristi con le mutande “D e G” ed enormi ritratti, copie sputate di quelli “famosi e stranieri”.
Tante cosine accademiche, insomma, e tanti tricolori per ribadire che l’Italia ci piace e siamo tutti italiani e che il tricolore è bello e noi ci vogliamo bene… bleah!!!
Va bene che abbiamo festeggiato i 150 anni dell’Unità d’Italia, un compleanno importante per quanto originato da guerre interne tra nord e sud, né più né meno di quelle che ora caratterizzano la Lega Nord dalle questioni politico sociali del Sud. Certo, celebrazioni dovute… ma senza esagerare. Stop!
Insomma, perché riciclare la stessa opera fatta per la nazione destinandola ad un’altra mostra?
Perché non prendiamo a due mani quel minimalismo di cui scrivevo prima e non esponiamo solo 4 o 5 BUONI ma dico BUONI artisti a rappresentarci dinanzi al mondo, caso mai evitando questo malcostume di scambiare la Biennale con una qualsiasi fiera di paese, nella quale vendere il quadro con i delfini azzurri in un mare “sbrilluccicoso”? Sì, proprio quello che trova posto sulla bancarella del finto indiano, ma col sottofondo di musica tipica di voci e tamburi. E, soprattutto, possibile che la faccia più ritratta sia quella di Sgarbi?
Mi trovo in un luogo che è titolato: “L’arte non è cosa nostra”; un tristissimo, ripetitivo e disarmante riferimento alla mafia, alle raccomandazioni e a tutto quello che rappresenta al peggio il nostro Paese. Ma con un doppio significato.
Un’ammissione da piangere, che ci spiega che l’arte non è cosa nostra, cioè che non la sappiamo fare, capire e riconoscere; che noi italiani siamo rimasti a questo, a raccontare la mafia al mondo.
Dato che Il Padrino, Gomorra, Berlusconi e le varie internazionali figure che regaliamo, già raccontano abbastanza la questione come può proprio Sgarbi organizzare questo?
Ve lo chiarisco per chi non fosse al corrente. Sgarbi è stato “messo lì” da tal Bondi. Punto.
Senza meriti, se non i soliti, quelli tipicamente italiani.
Quindi, come possiamo parlare del contro raccomandazione, di un’Italia vittima del male, se proprio con queste premesse nasce la Biennale di Venezia?
Leggo, ed è una lettura che conforta il mio pensiero, una meravigliosa lettera di Riccardo Dalisi, straordinario signore dell’arte, napoletano. Ha rifiutato di partecipare all’esposizione nella sezione campana del “Padiglione Italia”.
Mi inorgoglisco nelle sue parole: “Il mio no a Sgarbi è un piccolo gesto di resistenza, forse anche inutile, ma voglio renderlo pubblico in solidarietà ai tanti giovani lavoratori per i quali rifiutare il compromesso con il potere ed i suoi rappresentanti sta diventando sempre più difficile, e a tutti quelli che nelle istituzioni, lavorano per rendere effettiva una nuova visione della città e della sua cultura” (Repubblica-27luglio2011). Credo che a queste parole non ci sia ulteriore commento da riportare. Sono assolutamente condivisibili!