di Antonio Tretola
(Sanniopress) – Se Francesco Bacone e Tommaso Campanella, gli autori più celebri delle opere che hanno tratteggiato il profilo delle “città ideali”, fossero tornati a vivere, avrebbero potuto scovare in Norvegia, ciò che più si avvicinava al loro splendido sogno.
Lì, nel profondo Nord, la perfezione sociale si è inverata, da chimera irraggiungibile divenuta realtà, fino all’illusoria certezza d’aver coniugato la ricchezza con la felicità, proprio come nella Città del Sole di quel terrone del Campanella.
“C’è un luogo di questo pianeta che si conosce poco quanto il Sud: è il Nord”. Amelie Nothomb, una delle maggiori narratrici contemporanee, aveva però forse compreso che i ghiacci, un welfare impeccabile, un’educazione che sembra sgorgare quasi dal codice genetico, non potevano impedire che anche dove il giorno dura poco, pochissimo, l’odio, la violenza, il fanatismo ed il disagio presentassero il conto.
Ad Oslo, ad Utoya, cade l’ultimo mito, tramonta l’ultimo idolo. Quello, rassicurante e melenso, dell’isola felice, del luogo immune dai virus, dove i poliziotti, quasi in un ossimoro, potevano evitare finanche il minaccioso monito della fondina.
La Norvegia è lontana, troppo lontana. Remota, pare quasi trovarsi in un’altra dimensione. Eppure una fiaccola per i giovani di Utoya, dovrebbe ardere anche qui, nella provincia, che tutti in fondo consideriamo la “Scandinavia della Campania”, in quella che molti, pur negandolo, in fondo considerano un’oasi di pace in una regione disseminata di problemi insoluti.
La malefica zizzania inquina sempre i prati più floridi e verdeggianti, cresce nell’indifferenza, nella rassicurante calma apparente, sfrutta la convinzione di sentirsi immuni, estranei, protetti e lontani dal male.
Così proprio quando la guardia si abbassa, il nemico colpisce. In silenzio o nel rumore più stridulo, servendosi del fanatismo o di un razionale lavoro sottotraccia.
E’ stato il vaccino, la più strepitosa scoperta della storia della medicina: qualunque corpo, anche il più sano e vigoroso, necessita di fortificarsi in previsione di visite sgradite.
Le “isole felici”, il cui crepuscolo è stato tristemente certificato in quell’isola stracolma di giovani dai lineamenti così diversi dai nostri e dalle aspirazioni così identiche alle nostre, cadono spesso nel tranello di credersi impenetrabili, inattaccabili, quasi che il loro status fosse scritto nelle stelle, come un dono del Fato.
Ma l’isola felice è purtroppo quella che non c’è, nè in Scandinavia, nè tantomeno in Campania.
Una fiaccola per i giovani di Utoya arda anche qui e ci insegni che essere diversi, migliori, sentirsi al riparo, garantiti, può essere una condizione solo momentanea: ci ricordi, il sacrificio di quei giovani, che un’isola felice può smettere di esserlo, nell’attimo in cui crede di poter restar per sempre tale: è proprio allora che la zizzania attecchisce. Nel silenzio o nel rumore più stridulo.