di Billy Nuzzolillo
Giuseppe Alfano, Carlo Casalegno, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Giancarlo Siani, Giovanni Spampinato, Walter Tobagi. Sono questi i nomi dei giornalisti italiani uccisi nel dopoguerra da mafia, camorra e terrorismo.
Nessuno di loro aveva la vocazione dell’eroe, ma tutti, indistintamente, non si sono mai accontentati della versione ufficiale o di comodo degli avvenimenti. Hanno raccontato cose che gli altri non vedevano o non volevano vedere, hanno collegato fatti, nomi, vicende scollegate tra loro, per risalire alla verità. E hanno pagato con la vita.
Nessuna delle democrazie alle quali siamo soliti raffrontare la nostra ha fatto pagare agli uomini e alle donne della sua informazione un prezzo così alto.
Ricordarli oggi, in occasione della XVI Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie che si celebra a Potenza, costituisce un dovere ma, nello stesso tempo, anche un impegno perché oggi, ancora più che in passato, siamo chiamati a difendere il diritto-dovere di cronaca e la libertà di stampa contro i tanti, troppi, nemici che vorrebbero far tacere i giornalisti.
Sono, infatti, oltre quattrocento i colleghi che in Italia, negli ultimi anni, hanno ricevuto minacce ed intimidazioni per la pubblicazione di notizie sulla mafia, sul terrorismo o su episodi di estremismo politico. I dati sono contenuti nel Rapporto di “Ossigeno”, l’osservatorio della FNSI e dell’Ordine dei Giornalisti sui cronisti sotto scorta e le notizie oscurate con la violenza.
Un rapporto da cui emerge uno scenario inquietante: 68 casi di minacce ed intimidazioni denunciati, 43 casi di intimidazione individuale, 24 minacce collettive, 13 aggressioni fisiche, 10 danneggiamenti. I casi più eclatanti riguardano Roberto Saviano, Lirio Abbate e Rosaria Capacchione, costretti a vivere sotto scorta.
Il fenomeno, purtroppo, non risparmia nemmeno la città di Benevento: proprio in questo quartiere due anni fa fu aggredita una troupe di Rete Sei, la cui unica “colpa” era quella di voler realizzare un servizio giornalistico su un omicidio avvenuto il giorno precedente. E sempre nella “tranquilla” Benevento da circa 500 giorni il direttore di Messaggio d’Oggi subisce intimidazioni, minacce ed insulti telefonici da un cosiddetto “lettore scontento”.
Qualsiasi onesto giornalista dovrebbe riuscire ad immedesimarsi nella situazione di un collega minacciato. Dovrebbe identificarsi nella sua condizione di vittima. Purtroppo, tutto ciò non accade: basta osservare l’atteggiamento assunto dall’unico quotidiano locale rispetto alla vicenda di Danila De Lucia.
Non va dimenticata, infine, la forma più subdola ma efficace di intimidazione nei confronti di un giornalista: la richiesta di risarcimento presso il Tribunale Civile. Negli ultimi anni, chi vuole fermare a tutti i costi un’inchiesta giornalistica, va direttamente dal giudice civile e chiede un risarcimento in denaro, di solito per un importo tale da mettere sul lastrico sia il giornale che il giornalista. In questa situazione è difficile fare valere il diritto di cronaca e anche quello dei cittadini di essere informati.
Ma c’è anche un rovescio della medaglia, rappresentata dalla cosiddetta “macchina del fango”, attraverso cui giornalisti conniventi e politici faccendieri cercano di delegittimare i rivali.
Proprio don Peppe Diana, di cui sempre oggi ricorre il diciassettesimo anniversario della morte, fu uno dei primi bersagli di questo sistema: accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan.
Come ha ricordato la scorsa estate Roberto Saviano, “persino quando ti ammazzano, basta un sospetto, una voce diffamatoria, che le agenzie di stampa non battono neanche la notizia dell’esecuzione. Così distruggere l’immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale. “Don Diana era un camorrista” titolò il Corriere di Caserta. Pochi giorni dopo un altro titolo diffamatorio: “Don Diana a letto con due donne”.
Ricordarlo oggi, quindi, significa aver sconfitto una coltre di persone e gruppi che pretendevano di avere il monopolio sulle informazioni di camorra, in modo da poterle controllare. Ricordarlo è la dimostrazione che anche questa terra può essere raccontata in modo diverso da come è successo per lungo tempo”.